Ad Al Kharub l’integrazione sociale avviene tra api e cucina mediterranea
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Agrigento - Il carrubo è la tipica pianta del Mediterraneo: è rustica, poco esigente, cresce bene in terreni aridi e poveri e sopporta i climi caldi. Una pianta che unisce molti paesi che nei secoli si sono mescolati influenzandosi a vicenda, facendo dell’integrazione e dell’inclusione la vera arma vincente.
É per questa sua natura così molteplice che la traslitterazione dall’arabo, Al Kharub, è stata scelta come nome della cooperativa agrigentina nata nel 2011 per costruire opportunità lavorative e creare inclusione interattive, puntando sulla realizzazione di produzioni di beni e servizi di qualità come costruttori di ponti. Il nome è la testimonianza del legame tra mondi e culture solo apparentemente distanti, fortemente permeati nelle loro diverse espressioni. E Al Kharub ne è la prova.
«La cooperativa nasce per iniziativa di alcuni riabilitatori – racconta Carmelo Roccaro, presidente di Al Kharub – ambientalisti e giovani rifugiati. Nasce come costola di una cooperativa più grande che si occupa di riabilitazione neurologica in coerenza con il modello ICF, l’International Classification of Disability and Functioning, adottato dall’OMS, che affronta la disabilità non solo da un punto di vista medico, ma anche sociale e ambientale, come effetto della relazione tra lo stato di salute della persona e il contesto in cui questa vive, la presenza di barriere e di facilitatori».
«Da qui – prosegue Carmelo – una cooperativa a inserimento lavorativo anche erogatrice di servizi che possano facilitare l’inserimento di persone in condizioni di svantaggio: disabili psichici, motori e sensoriali, rifugiati e persone sottoposte a regimi di pena che hanno necessità di essere aiutati nell’inserimento».
LE PRIME INIZIATIVE
Per raggiungere questi obiettivi sociali Al Kharub, sin da subito, ha puntato all’agro-alimentare e alla tutela del territorio. Ha così partecipato a un progetto dedicato all’apicoltura all’interno del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi, APESLOW, per la reintroduzione dell’ape nera locale – l’apis mellifera siciliana – sull’isola. «Non possiamo dire che alleviamo l’ape in purezza perché è un lavoro estremamente complesso, ma speriamo di riuscirci un giorno», commenta Carmelo.
L’ape nera è stata soppiantata dall’apis mellifera ligustica, importata negli anni ‘70 e conosciuta anche come “ape italiana”, per le sue presunte capacità produttive e per la poca disponibilità dell’ape nera nel territorio siciliano, allevata ancora in modo tradizionale. Alcune delle poche famiglie di apis mellifera siciliana rimaste – nonostante la specie fosse adattata perfettamente alle diverse condizioni climatiche dell’isola tanto da riuscire a fare miele invernale come quello con i fiori di nespolo e carrubo – sono state portate nelle isole più piccole, Ustica, Eolie e Pelagie, per isolarle da altre sottospecie ed evitarne l’ibridazione.
Oggi nel Giardino della Kolymbetra, all’interno del Parco Archeologico della Valle dei Templi, la cooperativa ha realizzato un piccolo alveare che non solo contribuisce alla salvaguardia della specie, ma permette anche di ricevere gli innumerevoli benefici che offre questo prezioso animale, tra cui l’impollinazione degli agrumi presenti. Intanto attraverso il marchio Diodoros il Parco Archeologico ha iniziato a produrre miele da ape nera grazie anche all’inserimento lavorativo di persone con svantaggio sociale della cooperativa sociale Al Kharub.
DALLE API ALLA RISTORAZIONE
Nel 2014, grazie all’apporto di nuovi soci migranti presenti nel territorio, Al Kharub ha anche avviato un’attività di ristorazione, all’inizio solo take away, che ha permesso di contrattualizzare tre soci lavoratori, tutti appartenenti a fasce critiche, tra cui due persone con disabilità. La chef, Mareme Cisse è riuscita a creare una magica fusione tra le ricette del Senegal e quelle delle nonne agrigentine. Un esempio di integrazione tra arancini, cous cous, brik tunisini ripieni di caponata e baccalà in insalata senegalese.
Mareme ha anche vinto il Festival Internazionale di Cous Cous di San Vito Lo Capo nel 2019. Il ristorante Ginger-people&food è ormai diventato l’attività principale di Al Kharub. Un nome che richiama la bevanda tradizionale senegalese, ma anche e soprattutto l’importanza che la cooperativa dà alle persone prima ancora che al cibo.
«Il cous cous è il nostro piatto principale, la nostra punta di diamante, preparato in maniera tradizionale, cotto a vapore, lavorato a mano. Un cibo migrante diventato ormai una pietanza tradizionale nella zona di Trapani. Non molti sanno che nella seconda metà dell’800 parecchi pescatori siciliani emigravano in Tunisia per lavorare. Marsala, Trapani e San Vito Lo Capo sono le località che hanno avuto maggiori scambi con l’Africa, tanto da trasformare un piatto “straniero” in uno tradizionale», ricorda Carmelo.
Una pagina di storia che dovrebbe essere ricordata da chi oggi considera stranieri tutti coloro che si spostano alla ricerca di una vita migliore, proprio come hanno fatto molti dei nostri avi in un passato neanche troppo lontano. La bravura di Mareme e la bontà della sua cucina hanno avuto tanti riconoscimenti. Da qualche anno Ginger-people&food fa parte della guida alle osterie d’Italia Slow food e nel 2023 ha ricevuto la chiocciola, il riconoscimento dato alle migliori osterie all’interno della guida. Mentre Mareme è diventata membro dell’alleanza dei cuochi.
«Una cuoca che porta avanti un’idea di cucina che va nel senso dell’integrazione. Da sempre, del resto, la cucina è frutto della contaminazione e degli incontri con altre culture. La cucina siciliana in questo è emblematica. Noi partiamo molto dal territorio, dai prodotti locali, dalla stagionalità e condividiamo le ricette modificandole. L’utilizzo delle spezie fa la differenza, una contaminazione a 360 gradi. Difficilmente si ammette che ci possono essere dei cuochi dal Sud del mondo capaci di proporre una cucina di qualità e farsi pagare il giusto prezzo. Noi l’abbiamo e il nostro cous cous vengono a mangiarlo da tutte le parti della Sicilia e non solo», continua Carmelo.
YOUTH & FOOD E IL LABORATORIO DI FALEGNAMERIA
Le attività realizzate da Al Kharub dimostrano come attraverso le fragilità si può davvero fare qualcosa di qualitativamente importante. La vera risorsa e il miglior ingrediente è la biodiversità umana e culturala. E a proposito di biodiversità… vengono dal Benin, dal Mali, dal Pakistan, dal Senegal e dal Maghreb, hanno tra i 17 e i 19 anni e il bagaglio pesante di chi ne ha già viste tante e la luce di chi comunque ancora crede di avere una chance di realizzare il proprio sogno attraverso il cibo, imparando un mestiere, inserendosi in una nuova comunità.
Sono i giovani che partecipano al percorso di inclusione sociale, lavorativa e abitativa previsto dal progetto Youth & Food – Il cibo veicolo di inclusione, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, messo a punto da Slow Food. Il progetto si svolge nell’arco di tre anni e coinvolgerà in tutto 60 minori stranieri non accompagnati nelle città di Agrigento e Torino, proprio grazie al lavoro della cooperativa sociale Al Kharub.
E sempre ad Agrigento – a Villaseta, uno dei quartieri più difficili – la cooperativa ha avviato anche un laboratorio di falegnameria per la costruzione e la manutenzione di arnie, telaini, cassetti e quanto serve per l’apicoltura. «Veniamo da un periodo difficile, ma adesso stiamo cercando di ripartire, riequilibrare tutto e proiettarci verso un incremento dell’attività di ristorazione. L’idea è aprire ulteriori punti in altre città, ormai il nostro brand è conosciuto e riconosciuto. Siamo orgogliosi di quello che facciamo, ma è dura».
«Ci interroghiamo quotidianamente come andare avanti. Non puntiamo ad un profitto generato dalla compassione, ma dalla qualità. La nostra cooperativa è la dimostrazione che situazioni di fragilità riescono a generare risultati incredibili. Alle persone occorre dare delle chance, degli esempi, dire che le alternative esistono, sempre, solo così possiamo migliorare come umanità» conclude Carmelo Roccaro.
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