Seguici su:
La vita indipendente delle persone con disabilità, quella irriverente che ha le “chiavi di casa” e che esce allo scoperto tra la gente, è sempre stato un mio sogno. Un sogno che pensavo si sarebbe avverato solo in un futuro indefinito, ma che sorprendentemente sta facendo passi da gigante e si sta evolvendo velocemente. È difficile spiegare che anche le persone con disabilità possono avere una vita autodeterminata fatta di scelte, di successi, di insuccessi e di imprevisti di cui essere le protagoniste principali. Culturalmente e socialmente è ancora piuttosto radicato il pensiero che le persone con disabilità non possano avere una vita “da grandi” e che, in un certo qual modo, restino eternamente bambini.
Oggi vi racconto la storia del regista Michele Pastrello – che ho intervistato insieme a Ketty Pellegrinelli della Cooperativa Sociale Arcobaleno, che ha ideato il progetto di cui parleremo oggi – e di come con la sua professionalità abbia contribuito a dare vita, attraverso lo schermo, proprio a questo concetto. Lo fa in particolare attraverso 5 Donne, il suo lavoro che parla di Silvia, Chiara, Franca, Noemi e Laura. Condividono un’abitazione, lavorano, cucinano, guardano la televisione, chiacchierano tra loro, cantano, discutono animatamente, trascorrono le giornate seguite dagli assistenti della cooperativa e al contempo assaporando l’esperienza di autonomia della vita adulta.
Michele, raccontaci brevemente di com’è nato 5 donne, il mini docufiction emozionale per ribadire che la vita autonoma/indipendente delle persone con disabilità non solo è possibile, ma è un successo da replicare.
Ho conosciuto Silvia, Chiara, Franca, Noemi e Laura e ho trascorso una giornata con loro. Mi sono fatto raccontare la vita di tutti i giorni, gli impegni settimanali – lavorativi, domestici o legati a un hobby – e ho chiesto quali siano le loro passioni, scoprendo chi tra loro ama l’acqua, chi ricamare, chi leggere.
Ho pensato che raccontare la loro vita indipendente non potesse essere null’altro che questo: mettere in immagini la quotidianità e il loro stare nella comunità, lasciando trasparire il legame che le unisce e che non ho potuto fare a meno di notare come sia molto fisico, affettivo. Questo non è un video sulla disabilità, ma un video con persone disabili. Non è neanche la loro storia, ma una fotografia della loro vita, che è uguale alla nostra: loro come noi.
Come e quando è nata l’idea di avvicinarsi professionalmente e umanamente al tema della vita indipendente?
Michele Pastrello: Beh, non è nata da me. È successo che mi sono imbattuto in Ilenia Vielmi, operatrice della cooperativa Arcobaleno di Breno, che desiderava trovare un modo per raccontare la storia di Silvia, Chiara, Noemi, Laura e Franca ma, al tempo, non sapeva come. Sentiva che un racconto fotografico avrebbe avuto bisogno di essere affiancato da una narrazione più facilmente divulgativa. Conoscendo Ilenia il mio percorso e tono registico e trovandolo idoneo ai fini, mi ha chiesto di pensare a qualcosa. Quel che ho poi pensato è quello che si vede in scena.
Mi è piaciuto molto il termine “famiglia di prossimità”. Credi che una rivoluzione culturale e sociale riguardo alla vita indipendente delle persone con disabilità possa incominciare anche al di là di un progetto specifico pensato, strutturato e proposto da persone “del mestiere”? Se sì, in che modo?
Ketty Pellegrinelli: Domanda molto interessante alla quale però trovo difficoltà a rispondere perché non ho esperienze in tal senso. Sicuramente l’essere operatori formati agevola la creazione di un percorso di vita indipendente; onestamente non nascondo che anche noi abbiamo incontrato numerose difficoltà per far riconoscere il diritto alla “adultità” delle persone disabili.
Certamente le famiglie hanno un ruolo fondamentale nel sostenere il percorso di vita autonoma del proprio familiare e soprattutto potrebbero essere dei facilitatori. Sottolineo inoltre l’importanza della rete sociale che si riesce a tessere intorno a una persona: un servizio da solo, anche se efficiente, non potrebbe rispondere a tutti i bisogni di queste persone che necessitano di un supporto della comunità di cui fanno parte.
Com’è stato realizzare 5 donne e cosa vi ha lasciato questo progetto?
Michele Pastrello: Non è stato difficile girarlo o almeno non di più di altre esperienze registiche che ho avuto. È stato solo più lungo in termini di tempo, perché ci abbiamo messo una (afosa) settimana. L’intento era raccontare il quotidiano tralasciando le trappole del lacrimevole o del facile effettismo di cui spesso sono affetti i video ritratti sul mondo della disabilità, un quotidiano come quello di qualsiasi altra famiglia, con però il punto di vista emozionale dall’interno. Per il resto posso dire che sono rimasto colpito dal non essere colpito: ho convissuto per cinque giorni nella casa delle protagoniste e ho assistito alle loro dinamiche – risate, chiacchiere, noie, scazzi, gentilezze –, che sono quelle che si possono osservare in qualsiasi famiglia.
In che modo la vita indipendente delle persone con disabilità potrebbe essere sempre meno “medicalizzata”?
Ketty Pellegrinelli: Più che il termine “medicalizzata“ userei “de-istituzionalizzata“, meno segregante. Bisogna promuovere il più possibile soluzioni dell’abitare per persone con disabilità affinché possano sperimentare e implementare le proprie autonomie in contesti, inizialmente protetti, con lo scopo di diminuire il bisogno di supporti esterni. La scelta del nostro compianto Presidente Angelo Farisoglio di attivare il servizio in un condominio e non all’interno della sede della nostra cooperativa era proprio in questa ottica. Nel futuro i servizi dovranno essere al servizio delle persone e non le persone adattate al servizio.
Credete che nel mondo cinematografico ci sia una corretta narrazione delle persone con disabilità?
Michele Pastrello: No, molto spesso non c’è una corretta narrazione, va ammesso. È un argomento che chiede attenzioni particolari. Da un lato la capacità di calarsi il più possibile negli altrui panni e dall’altro lato cercare di ascoltare davvero “questo” altro, per non cadere nelle secche dell’abilismo. Credo che oggi nel cinema italiano, quando la disabilità è protagonista, si rischino tonfi tremendi, come con il film Corro da te con Favino, che non è stato girato negli anni ’70 ma nel 2022. Nel momento stesso in cui io mi trovassi ad affrontare questa tematica in un’opera di fiction dovrei e vorrei apprendere di più da chi convive con una disabilità e da come si sente percepito e rappresentato.
Come scrivono Elena e Chiara Paolini nel loro libro Mezze persone, “quando si parla di disabilità, abbondano le espressioni legate alla sofferenza, alla malattia o a una generica alterità: persone speciali, angeli, affetti da disabilità, malati, meno fortunati, eroi, sensibili, persone che soffrono, madri coraggio, sono all’ordine del giorno su moltissime testate.
Il linguaggio utilizzato è spesso sminuente e disumanizzante. Facendo una suddivisione approssimativa dei modi in cui vengono rappresentate le persone disabili, si possono sicuramente individuare due categorie: le vittime e gli eroi. È una dicotomia a cui è difficile sfuggire, un po’ come è ancora difficile per le donne slegarsi dalla rappresentazione “sante”/“puttane”.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento