Dieci anni dopo il Rana Plaza: la tutela di lavoratori e lavoratrici spetta a noi
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«L’intero edificio ha cominciato a tremare e le colonne dietro di hanno iniziato a sbriciolarsi. Delle macerie mi hanno colpito alla gamba e quello è stato un segno: ho urlato e mi sono precipitata verso la porta. Ho spintonato la guardia per attraversare il cancello che avevano sprangato, poi mi sono voltata e ho visto l’intera fabbrica collassare su sé stessa». Beauty è una delle 2500 persone che sono rimaste ferite dal crollo del Rana Plaza, una gigantesca fabbrica tessile in Bangladesh. Lei è stata fortunata: 1134 colleghi e colleghe non sono più spuntati dalle macerie fumanti dell’edificio. Era il 24 aprile 2013, esattamente una settimana prima del 1° maggio, la festa dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ecco i brand di moda occidentali i cui prodotti venivano confezionati al Rana Plaza (fonte Global Labour Rights): Wal-Mart, Children’s Place, Dress Barn, Primark, Matalan, Bonmarche, Cato Fashions, Tex, Mango, Joe Fresh Industrias Cristian Lay S. A., Shine Jack’s, NKD. Purtroppo non mancano diverse aziende italiane: Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee.
Sono passati dieci anni da quella tragedia che ha battuto ogni macabro record di letalità, ci apprestiamo a celebrare un’altra festa del lavoro, ma qual è la situazione oggi? Se possibile, per certi versi peggiore di quella di dieci anni fa. Come sottolinea la Campagna Abiti Puliti in un’analisi del rapporto del Fair Trade Advocacy Office, c’è “una tendenza generale alla riduzione dei prezzi, all’accorciamento dei tempi di consegna, all’aumento dei cambi d’ordine, all’allungamento dei termini di pagamento e all’aumento dei costi “nascosti”, come la produzione dei campioni iniziali, che vengono trasferiti ai produttori. Tutto ciò mette in difficoltà i fornitori, che non sono in grado di effettuare investimenti e pagare gli stipendi”.
«Occorre lavorare per garantire una giusta e diversa redistribuzione del valore nelle catene di fornitura globali. Dieci anni dopo la tragedia del Rana Plaza le operaie tessili del Bangladesh sono ancora povere, anzi, sono più povere a causa della crisi da Covid e dell’aumento dell’inflazione causato dalla policrisi in cui siamo tutti immersi», ha osservato Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti, in occasione di un incontro tenutosi a Roma pochi giorni fa.
I prezzi troppo bassi pagati dalle grandi aziende committenti sono la causa principale della compressione dei costi, quindi della povertà e delle precarie condizioni di sicurezza. Non solo: «Le pratiche commerciali dei grandi marchi sono anche causa diretta della violenza di genere diffusa nel settore, che ha anche una matrice economica. Il decennale del Rana Plaza ci consegna una responsabilità che va oltre il singolo paese e parla a un intero sistema industriale che deve essere radicalmente trasformato».
La lezione del Rana Plaza riguarda anche noi: è nostra responsabilità avere uno stile di consumo consapevole e informato. Deborah Lucchetti conclude tornando in Italia, dove è necessario «rafforzare l’integrità e l’utilità dell’Ispettorato del Lavoro, patrimonio pubblico di competenze senza il quale è facile e molto rischioso cedere alle lusinghe del mercato».
Non sentiamoci dunque esenti da responsabilità: nel mondo del tessile, così come in innumerevoli altri settori e ambiti produttivi, il potere più grande è sempre quello che sta nelle mani di chi sceglie cosa acquistare. Non esistono prodotti a buon mercato, poiché ciò che non paghiamo noi lo paga qualcun altro, magari sotto forma non di costi vivi ma di condizioni di sicurezza sul lavoro non garantite, diritti sindacali negati, impatto ambientale elevato e di tante altre esternalità negative che, come acquirenti, abbiamo il dovere di conoscere.
«Bisogna pensare collettivamente di cambiare l’approccio, comprare e produrre molto meno, prendersi più cura del proprio abbigliamento», ci ha detto la stilista Leoné Frajese in occasione di un’intervista sul suo marchio di slow fashion, Stato Bradipo. Nel 2022 a livello globale sono morti 60 lavoratori e lavoratrici del comparto tessile e 600 sono rimaste ferite. In Italia i morti sul lavoro nel 2022 sono stati 1090. Numeri che impongono un’assunzione di responsabilità da parte nostra, perché in cima alle filiere non ci sono i grandi marchi né ci sono i decisori politici, ma ci siamo noi.
E questa non è che la punta dell’iceberg: la maggior parte dei beni che acquistiamo ogni giorno celano costi occulti che ricadono sulle spalle di altri, spesso dei lavoratori e delle lavoratrici che li producono. Un altro esempio? Oggi in Italia sono 400.000 i lavoratori vittime del caporalato, di cui l’80% sono stranieri, mentre sono circa 30.000 le aziende che ricorrono all’intermediazione illecita e para-mafiosa della manodopera.
Vogliamo semplificare ancora di più? Ecco una breve storiella che può aiutarci a farlo: “Sora Maria entra in un supermercato prende in mano due succhi d’ananas per i nipotini. Le coltivazioni in Congo da cui provengono sono gestite da una multinazionale della frutta che si è accaparrata la terra dei coltivatori pagandola sottocosto allo stato congolese. I contadini si sono visti costretti a lavorare nelle terre una volta loro con una paga che imbarazzerebbe buona parte dei condomini del palazzo della Sora Maria. La Sora Maria non sa nulla di tutto questo e acquista il succo d’ananas”.
Questo aneddoto ce lo ha raccontato Gabriele Mandolesi, co-fondatore del progetto Economia e Felicità, nato quasi per scherzo, per fare degli incontri per iniziare a parlare di economia sociale e civile e per diffondere il concetto di votare con il portafoglio. E questo è solo un nodo di una rete sempre più solida e strutturata di alternative reali per un consumo realmente etico, molte delle quali sono state raccontate in questi anni anche sulle nostre pagine – da Humus Job, che combatte il lavoro nero e grigio in agricoltura, a Fondazione Finanza Etica, che fa lobbying positivo attraverso l’azionariato critico.
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