Un’intera famiglia recupera un nucleo di case in uno dei paesi più spopolati dell’appennino
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Piacenza, Emilia-Romagna - Cerreto è una piccola frazione del Comune di Zerba, incasellata nell’appennino delle Quattro Province. Se doveste cercarla sulla mappa, la trovereste molto vicina a quella linea che separa l’Emilia Romagna da Piemonte, Liguria e Lombardia. A Zerba gli abitanti sono una settantina e nella piccola frazione di Cerreto coloro che ci vivono stabilmente sono solamente una decina. Residenti, che fanno di questo Comune il più anziano e il meno popolato della regione Emilia-Romagna.
Se guardate con più precisione sulla mappa vi accorgerete di un altro aspetto peculiare di questo luogo: il verde incontaminato che lo circonda. Se infatti da un lato guardiamo a questo come un territorio frammentato, spopolato e marginale, dall’altro ci accorgiamo che qui la vera ricchezza sono le risorse naturali. Piante, animali, corsi d’acqua, sassi, boschi e foreste. Ma anche le vite delle persone che con le loro storie custodiscono un pezzetto di essenza di questi luoghi autentici.
Proprio come un’intera famiglia che a Cerreto si sta impegnando nel recupero di un nucleo di case: sono Fedro Peccatori e Giulia Bellettini, con i loro figli Nicolò, Elisa, Federico, Tommaso e Francesco. Milano è la loro casa ma un pezzo delle loro origini appartiene a queste terre. «Quando il nonno è venuto a mancare abbiamo ereditato delle case e dei terreni boschivi. Così tre anni fa abbiamo deciso di recuperare il prezioso patrimonio immobiliare che ci aveva lasciato».
IL PROGETTO DI RECUPERO
A Cerreto c’era una piazza, utilizzata in passato per battere il grano, come sovente accadeva nei piccoli paesi della valle. Proprio intorno a questa piazza si trova da tempo immemore il nucleo di case della famiglia: «C’era un granaio, una casa con la stalla dove abitavano i nostri nonni e ancor prima i bisnonni, e una cascina per il ricovero degli attrezzi agricoli. Il nostro lavoro è consistito nel recupero di questi tre edifici. Ad oggi la casa e il granaio sono completamente ristrutturati e ospitano le stanze, oltre che una cucina ricavata al posto della stalla. Alla vecchia cascina, che invece funge da deposito attrezzi, ci lavoreremo entro la fine dell’estate».
Quella della famiglia Peccatori è la storia di chi si impegna con il sudore e la fatica a mantenere viva la memoria delle generazioni passate, oltre che di un luogo. Il nonno infatti, originario di queste terre, dopo 20 anni era emigrato nella pianura milanese, alla ricerca di maggiori fortune. Nel tempo le case di famiglia diventavano sempre più bisognose di un recupero.
«Tra gli anni ’70 e ’80 non erano poche le abitazioni che avevano subito ristrutturazioni incongrue rispetto all’architettura locale», mi viene raccontato. E un classico esempio sono le pietre del luogo, spesso nascoste e coperte da intonaci. «Il nucleo di case è rimasto abbandonato per quindici anni. Noi abbiamo cercato di fare un percorso inverso a quello che era stato fatto in passato: recuperare la vera natura di queste case, tirando fuori le pietre in modo da farne emergere le vere radici».
Tirare fuori le pietre, nel vero senso della parola. Come nel caso della piazza originaria, dove erano state coperte da una colata di cemento e da nuove pietre poco aderenti alla realtà del luogo. «Per riuscire nell’impresa abbiamo picconato il cemento e rimosso le pietre una a una. La cosa incredibile è che sotto a questi materiali abbiamo trovato la piazza originale». Oppure, come nel caso delle pietre per la muratura delle case, che le braccia ormai forti della famiglia hanno recuperato dal fiume per portarle su in paese.
«Oltre al restauro conservativo abbiamo acquistato due orti da una signora, che stiamo imparando a coltivare. Non siamo dei contadini navigati ma stiamo facendo esperienza. Ad oggi ci siamo sperimentati nelle marmellate di susine e prugne, abbiamo piantato le fragole, un pero, un ciliegio, un mandorlo, un susino e un castagno».
UN INCONTRO FORTUNATO
Le case, ristrutturate l’ultima volta negli anni ’60, sono abitazioni che hanno una storia di più di duecento anni. «Per il recupero non abbiamo richiesto l’aiuto di un architetto o di un designer. Volevamo semplicemente rimetterle in sesto rispettandone l’architettura originaria e per farlo avevamo bisogno di qualcuno che questo territorio lo conoscesse bene». Proprio come Massimo. Lui è uno di quei 10 residenti prima citati ed è un vero tuttofare: lavora come muratore ma è anche contadino, ha uno spirito imprenditoriale ed è appassionato della storia del territorio.
«È stata una vera fortuna averlo incontrato. Noi avevamo molte idee ma spesso non sapevamo come metterle in pratica. Nell’affidargli il lavoro, ci siamo proposti di aiutarlo». Massimo è la persona giusta, quell’incontro fortunato che ha saputo trasformare le proposte creative di mamma Giulia e le idee pratiche di papà Fedro in qualcosa di reale. «Massimo ci ha insegnato tanto. Lui, che ha a cuore la conservazione della memoria della montagna piacentina, ha reso la ristrutturazione di queste case più vicina alle origini che a un semplice intervento edilizio».
RIPOPOLARE UNA VALLE DELL’APPENNINO
Così la famiglia ha recuperato il borgo e oggi porta avanti i lavori nel weekend o nei momenti liberi: mentre chiacchieriamo, Fedro è proprio a Cerreto, dove approfitta dei giorni di lavoro in remoto che la professione di medico e le collaborazioni scientifiche gli permettono. Tommaso invece è in città a Bologna, dove lavora, e dalla quale si prende una pausa per seguire a Cerreto lo sviluppo dei lavori.
«Ad oggi, grazie alla possibilità di lavorare da lontano, abbiamo voluto coltivare il senso di comunità che è rimasto in questi paesi e viverci metà della settimana. Con una buona linea internet ho trovato il posto ideale. D’altronde, vedo nella futura pensione una possibilità per trasferirmi qui, dove abbiamo scoperto un mondo straordinario», mi racconto Fedro Alessandro.
UNA COMUNITÀ ALLARGATA
«Una conoscenza molto speciale che ci ha accompagnato in questo percorso di vita è Paolo Rossi, fotografo e documentarista che conosce bene l’area delle Quattro Province. All’epoca stava lavorando a un documentario, un breve filmato su come il bosco e la natura si siano riappropriati del territorio. Gli abbiamo scritto in maniera informale e da subito si è appassionato alla nostra storia. Con il tempo si è creata un’amicizia che coltiviamo tuttora».
L’amicizia con Paolo Rossi ha portato a delle collaborazioni virtuose, come l’evento nella piazza di Cerreto durante il quale hanno proposto la proiezione del documentario. Inutile dire che l’evento è stato un successo: hanno partecipato con entusiasmo sia i residenti che coloro che in estate tornano in valle. «Siamo felici perché il nostro progetto di recupero è stato visto bene dalla comunità locale. D’altronde chi vive qui conosceva i nostri parenti e ci siamo sentiti accolti fin da subito».
VIVERE IN UN TERRITORIO DI CONFINE
Prima di concludere la nostra conversazione, domando se in Val Boreca si percepisce il territorio come area di confine. «È come se queste aree di confine avessero un’autonomia culturale rispetto alla regione di appartenenza», mi spiega Tommaso. «Per questo motivo Bologna, che è il capoluogo di questa regione, è molto distante, sia in termini spaziali, sia culturali che linguistici. Qui, infatti, c’è una cultura comune che crea affinità con i paesi che si trovano nella provincia di Genova, Alessandria e Pavia: territori vicini che di fatto si trovano nell’ambito di 100 chilometri quadrati.
«C’è una grande voglia di recupero, ci sono tante iniziative sul territorio che non sono visibili ma certamente sostenute da un grande spirito di ottimismo e investimento nel futuro». Investimento nel futuro: è proprio quello che auguro a questa famiglia unita che ha fatto della condivisione e della perseveranza la sua più grande forza. E sono certa che presto torneremo a raccontarvi dei loro progetti, dove la cura e la valorizzazione contribuiscono a dare dignità a questo pezzo di Appennino.
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