24 Apr 2023

Un’antropologa fra i migranti: “La comprensione dell’altro è fondamentale”

Scritto da: Brunella Bonetti

La ricerca antropologica può essere molto utile in innumerevoli campi e fornire chiavi importanti per interpretare la realtà e le relazioni con il prossimo. Ne è convinta Maria Concetta Segneri, che insieme al lavoro di supporto e cura delle persone migranti affianca un'intensa attività volta a valorizzare e far riconoscere il ruolo dell'antropologo.

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Roma, Lazio - La conosco da anni, è stata la mia tutor per la mia tesi di laurea in antropologia culturale sui richiedenti asilo, ma si occupa anche di ricerca, formazione e progettazione. È lì che l’ho incontrata: Maria Concetta Segneri è un essere umano che dedica la sua vita a coloro che hanno problematiche di salute, vulnerabilità molteplici, che hanno traumi, subito violenze, che necessitano di aiuto e protezione, di vedersi riconosciuti e accolti dal nostro paese.

Ma la nostra Moderna Persefone, non fa solo questo: si batte ogni giorno anche per vedere riconosciuta la figura professionale dell’antropologo in Italia. Una battaglia lunga e complessa culminata nella creazione dell’ANPIA, l’associazione nazionale dei professionisti italiani di antropologia, di cui lei è segretaria.

Chi sei e di cosa ti occupi?

Sono un’antropologa medico, lavoro all’interno di un ambulatorio pubblico insieme a medici, psicologi e psicoterapeuti, assistenti sociali, mediatori cultuali, che si occupano della salute mentale dei migranti. In particolare, io seguo soprattutto persone provenienti dall’Africa.

antropologa 1
Qual è stato il tuo percorso come antropologa e come sei arrivata all’INMP?

All’INMP ci sono arrivata quando si chiamava San Gallicano ed era parte dell’IFO un ospedale romano. Era un’unità operativa semplice che si occupava di migranti, di dermatologia tropicale, malattie sessualmente trasmesse e malattie della povertà. Ci sono arrivata dopo il mio percorso di studi in lettere moderne indirizzo demo-etno-antropologico con una tesi sulle mutazioni genitali femminili. Lo avevo scelto come luogo per la mia ricerca di campo e dopo la laurea trovai il modo per rimanerci e fare aggiornamento professionale.

Ho portato avanti questa bellissima esperienza e ho lottato affinché un’antropologa potesse diventare parte dell’equipe clinica. Nel frattempo ho continuato a formarmi con un master di II livello in cooperazione internazionale. Sono stata in viaggio in Etiopia per fare ricerca e alla fine, dal 2008 ho partecipato a una serie di concorsi pubblici che nel 2016 mi hanno portato a lavorare stabilmente per l’INMP.

Come si svolge una tua giornata di lavoro? 

Oggi per il quaranta per cento lavoro in ambulatorio con il resto dell’equipe clinica e per il resto del tempo in una unità che si occupa di mediazione transculturale. Qui mi occupo, insieme a un altro gruppo di lavoro, del riconoscimento della figura del mediatore culturale in sanità. Però le giornate in ambulatorio sono quelle che preferisco raccontare.

antropologa 2

Qui svolgo dei colloqui, sola o in affiancamento con gli psicologi, con persone straniere e migranti rispetto alle quali mi viene chiesto un approfondimento per comprende l’impatto che la migrazione può avere sulla salute, per ricostruire sistemi eziologici della malattia, per individuare condizioni di violenza secondaria, impasse alle terapie farmacologiche, ecc. Così faccio interviste e raccolgo elementi utili ai clinici per inquadrare meglio dal punto di vista diagnostico il paziente. Spesso conduco ricerche in accordo con i clinici per approfondite argomenti specifici. 

Quanto ha cambiato la tua vita questo lavoro?

Mi ha cambiato profondamente. Sicuramente c’era già una certa sensibilità per questi temi, sia per formazione professionale, ma anche per il mio modo di essere. Ho sempre voluto essere d’aiuto agli altri e questo lavoro ha la ricerca sociale di utilità non solo nella raccolta della domanda di aiuto, dell’individuazione del bisogno di salite, ma anche nella ricerca di ipotesi di soluzione delle necessità. Poi sono diventata una persona pratica e pragmatica, molto attenta all’altro e al suo disagio. Infine mi ha insegnato a lavorare in equipe condividendo il lavoro con altri esperti e unendo il metodo quantitativo e qualitativo.

Quali sono i lati positivi e quelli negativi di ciò che fai?

Il lato positivo è che incontro il mondo a casa mia senza viaggiare. Poi è positivo perché le mie ricerche hanno un’utilità concreta e mi fanno sentire davvero utile. Il rapporto con l’essere umano è molto forte ed è un motivo di crescita continua. È positivo anche poter lavorare con altre figure professionali diverse, ma molto affini, nel prenderci cura delle persone e della loro salute. Questo non ha prezzo. Un lato negativo invece è che in Italia la ricerca sociale nei luoghi pubblici non è una cosa scontata e si ha sempre la sensazione di essere pagati invano facendo sacrifici superiori al necessario per poter fare ricerca e con risultati inferiori al nostro sforzo.

Poter conoscere dà una marcia in più nella comprensione e nell’aiuto dell’altro. Per questo la ricerca sociale fatta in un certo modo dall’antropologo è utile e fondamentale

Se e come riesci a conciliare il tuo lavoro con la vita privata e quanto incide sul tuo stato psico-emotivo il contatto con i pazienti migranti?

Riesco a conciliare molto bene la mia vita privata con il lavoro. Il bagaglio emotivo che mi porto a casa è importante ma ho imparato a gestirlo grazie alla formazione continua e anche a una psicoterapia personale. Anche se non sono una clinica, lavoro nel mondo del disagio emotivo e ho imparato a gestirlo fino a starci dentro per aiutare l’altro. Paradossalmente sono più le criticità istituzionali che mi turbano.

Perché è importante la presenza di un’antropologa nel tuo lavoro?

Gli antropologi stanno bene ovunque perché la ricerca è necessaria in ogni settore. Approfondire certe questioni per poi restituirle a chi deve prendere delle decisioni o decidere grazie a quegli approfondimenti è impareggiabile. Poter conoscere dà una marcia in più nella comprensione e nell’aiuto dell’altro. Per questo la ricerca sociale fatta in un certo modo dall’antropologo è utile e fondamentale.

Quanto è difficile oggi in Italia lavorare come antropologa e perché non è richiesta come figura?  

È difficile in parte perché l’antropologo è poco conosciuto in certi campi. Non è facile in generale fare ricerca in Italia, ma farla in antropologia lo è di più. Inoltre non esiste ancora un profilo professionale di questa figura, ad accezione di chi lavora nel settore dei beni culturali e del patrimonio e, nonostante ci sia, anche lì fa fatica a vedersi riconoscere dei ruoli importanti. Anche l’antropologo però ha le sue responsabilità, perché fuori dall’accademia fa fatica a vedersi, riconoscersi, pensare di poter avere una carriere anche nel mondo del lavoro. 

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Per questo nasce l’ANPIA. Cos’è e quali sono le finalità di questa associazione? 

L’ANPIA è l’Associazione nazionale professionale italiana di antropologia e nasce per poter dare voce agli antropologi che lavorano fuori dall’accademia e hanno trovato spazi di lavoro producendo ottimi risultati. L’Associazione oggi conta un centinaio di soci, è in prima linea nella realizzazione di profili professionali di antropologi e antropologhe che lavorano con specifiche conoscenze, competenze e abilità in vari settori. È tra gli enti riconosciti dal Ministero del Lavoro, ha depositato il CV dell’antropologo culturale nei suoi registri specifici ed è responsabile dell’aggiornamento professionale continuo dei suoi soci. 

Cosa è cambiato in te dopo aver attraversato questo processo di crescita come antropologa sia all’INMP che in ANPIA?

Ho avuto l’opportunità di allargare la mia visuale e ho conosciuto molti altri colleghi e colleghe che lavorano sul territorio. Ho ampliato le mie prospettive umane e professionali nella lotta per il riconoscimento di una professione dell’antropologo. Mi sono fortificata e sono cresciuta con il mio lavoro riuscendo, insieme alla mia collega Miriam Castaldo, a far riconoscere questa figura presso un ente pubblico sanitario.

Cosa consiglieresti alle Moderne Persefone, soprattutto a quelle che vogliono fare l’antropologa?

Direi di capire bene l’ambito in cui voler lavorare e poi aggiornarsi il più possibile cercando sul territorio i luoghi più idonei per svolgere il proprio lavoro. Sperimentarsi e buttarsi per portare avanti i propri progetti mantenendo sempre un contatto molto attivo con altri settori e colleghi. Tutto ciò con un respiro internazionale.

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