Rachele Sordi: “Partendo dalle donne tesso relazioni per costruire una comunità solidale”
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Bolzano, Trentino Alto Adige - Da mesi pensavo di raccontarvi di lei. Dopo avervi portati a conoscere i protagonisti di alcuni dei tanti progetti sparsi per i monti e le vallate altoatesine, avevo voglia di raccontarvi la città. La mia città: Bolzano. E fra tutte le cose belle che qui si costruiscono, è impossibile non incontrare sempre lei: Rachele. Che sia un progetto di orti urbani, una nuova Casa di Comunità, una passeggiata di gruppo alla scoperta delle erbe selvatiche in città, una serie di incontri dedicati alle donne e all’impoteramento di genere, un dibattito cittadino o un laboratorio di sartoria e multiculturalità, Rachele Sordi ne è sempre parte, come ideatrice, educatrice o tessitrice di relazioni urbane e di comunità.
Quando la raggiungo al nostro appuntamento lei è al telefono, mi saluta. Ci sediamo, intanto ascolto: sta parlando con una donna in difficoltà che cerca di aiutare; la donna al telefono non ha ricevuto il permesso di soggiorno e questo mette a rischio il suo contratto di affitto e la sua permanenza. Rachele le spiega cosa può fare e si offre di accompagnarla negli uffici competenti. Quando termina la telefonata Rachele mi spiega che fra i suoi tanti compiti capita spesso di dovere – o volere – aiutare le persone anche con questioni burocratiche e pratiche.
Rachele, ci racconti del tuo lavoro?
Per una parte del tempo lavoro come libera professionista, ad esempio con Città azzurra, in una comunità protetta per persone con disturbi psichici dove li accompagniamo nelle attività di coltivazione di frutta e verdura e nell’allevamenti di animali. I percorsi che facciamo con loro, in collaborazione con una grande giardineria, hanno l’obiettivo di inserirli professionalmente. Il lavoro è per loro sinonimo di dignità e indipendenza e il campo dell’agricoltura in particolare può offrire uno spazio alle persone con disturbi mentali.
Adesso abbiamo avviato anche un orto terapeutico nel centro di Bolzano per giovani con disturbi alimentari, anoressia e bulimia. Lì il lavoro è molto diverso, si trattata di ridurre al minimo l’attività fisica e cerchiamo di fare in modo che i pazienti ristabiliscano un buon rapporto con il cibo. Inoltre lavoro part-time come educatrice presso OfficineVispa, una cooperativa sociale impegnata in progetti di sviluppo di comunità.
Il mio lavoro con OfficineVispa è iniziato ormai più di dieci anni fa nella Casa di Quartiere Don Bosco. Ora invece coordino la Casa di Quartiere Vivi Maso della Pieve. La Casa di Maso della Pieve è frequentata da gruppi linguistici e culturali molto vari. La conformazione della popolazione del quartiere infatti è composta dal 25% di residenti di lingua non italiana e non tedesca. L’obiettivo è proprio quello di creare comunità, di creare luoghi di socialità e di incontro e di attivare i residenti.
Il fine ultimo infatti è che siano loro stessi a proporre e a condurre le attività. Si tengono ad esempio un corso di italiano e uno di tedesco gestiti da volontari, un ragazzo e una pensionata, che hanno deciso di dedicare il loro tempo alla comunità. Una volta al mese proponiamo uno Spazio Donne, in cui le donne della comunità, a turno, preparano una colazione tipica della propria cultura culinaria. È un momento di conoscenza e condivisione che mira a creare relazioni di sostegno. Le madri, fra le altre, hanno sempre bisogno di relazioni di sostegno; quando le facciamo incontrare cominciano ad organizzarsi e a sostenersi l’un l’altra.
Come si coniugano comunità ed ecologia?
Io mi sono laureata in Scienze dell’Educazione con una tesi sull’educazione ambientale. Poi ho voluto ri-diplomarmi, in Agraria questa volta, e ho seguito un corso alla Laimburg sulla raccolta e la trasformazione delle erbe officinali. Ho sempre unito il mondo dell’educazione a quello dell’agricoltura. Per me la diversità, la decostruzione delle norme di genere e di razza, la promozione della parità di accesso, fanno parte dello stesso discorso e della stessa visione del futuro. Queste sono rivoluzioni e le rivoluzioni hanno bisogno del potere della comunità.
Come si fa a sviluppare comunità?
È un lavoro che richiede tempo. In un primo momento lanciamo attività che riescano ad avvicinare le persone al servizio. I corsi di lingua ad esempio riescono a fare questo: conosciamo sempre nuove persone quando parte un nuovo corso. Poi sviluppiamo momenti in cui le persone diventano attive, propongono, realizzano.
Sviluppo di comunità, impoteramento delle donne, multiculturalità, ecologia. La comunità è il minimo comune denominatore fra i tuoi numerosi progetti. Da dove nasce la tua passione per lo sviluppo di comunità?
Sono di Bolzano, ma i primi anni sono vissuta a San Giacomo [piccola frazione di Bolzano, ndr]), una comunità piccola che ricorda la dimensione del paese. E poi beh, mia madre era parrucchiera! Quindi questa comunità di chiacchiere che vivevo nel suo salone mi è poi mancata e ho sempre cercato di ricostruirla intorno a me. Mia madre stessa, una donna molto forte, si è sempre molto dedicata agli altri nel quartiere. Lei è stata sicuramente il primo stimolo.
Ecco, la comunità è il mio bisogno prima ancora che la mia passione. In una società dove la comunità è sempre più sgretolata, la famiglia sempre più piccola, credo che rafforzare le relazioni di cura tra persone porti valore alle nostre vite, alla mia di sicuro. Essersi di supporto, anche solo chiedersi “come stai?” ha un valore enorme.
Tra tutti i progetti di comunità di cui ti occupi ce n’è uno che ti sta particolarmente a cuore?
Uno dei progetti a cui mi piace molto lavorare è Liscià – Donne che raccontano donne, un’iniziativa di OfficineVispa. Con Liscià ci occupiamo di creare momenti in città per l’impoteramento di genere, quindi dibattiti e incontri tematici. Mi stimola il fatto di lavorare in un contesto tutto al femminile. Lo scambio con le mie colleghe mi rende felice, così come lo scambio con le ospiti. Durante gli incontri di Liscià mi sembra di riuscire a muovere qualcosa di importante in città.
Cos’altro ti rende felice?
Incontrare nuovi concetti, quelli che fanno click, che riescono ad aprirmi nuovi punti di vista. Dai momenti di confronto io imparo. Tornare a casa da un incontro e dire “io non avevo mai pensato a questa cosa!”. E poi anche vedere nel tempo un cambiamento nelle persone con cui lavoro.
Qual è stato il tuo cambiamento?
Il mio cambiamento è in atto. Sento davvero di essere in un percorso, imparo ogni giorno. Su tanti temi, dopo tanti anni, faccio ancora i primi passi. Scopro ogni giorno un cambiamento nel mio modo di vedere. Penso ad esempio alle disuguaglianze, alla creazione di un’altro da me, tipica dello sguardo coloniale e patriarcale e penso alla mia identità che presuppone uno sguardo specifico sul mondo. Il cambiamento profondo che io sento di aver iniziato è quello di mettere in dubbio quello che viene ritenuto normale e abituale e provare ad assumere nuovi sguardi e nuove posizioni.
Che cos’è che riteniamo sia normale? Definire la “normalità” è uno degli strumenti di oppressione sociale che agisce nel sistema in cui viviamo. Sono diventata cosciente dei miei privilegi e ho cominciato a mettere in discussione la “normalità”, a decostruirla, partendo dalla mia esperienza di vita. È dall’incontro, dalla scoperta e dallo scambio tra individui e comunità, che i cambiamenti possono succedere, attraverso sinergie, simbiosi e altri tipi di interazione che anche le piante in un giardino possono avere.
Il cambiamento che auguri agli altri?
Il cambiamento che auguro agli altri è esattamente quello che è il motto di OfficineVispa: cambiare il proprio dritto punto di vista. Perché non esiste una sola lettura del mondo.
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