Fondazione Querini: storia di una collezione che unisce all’arte bene comune e tematiche di genere
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Venezia, Veneto - Da secoli a Venezia esiste una collezione artistica che si potrebbe considerare un prototipo di bene comune. È la collezione della Fondazione Querini, nata grazie al mecenatismo di una delle più antiche casate veneziane – i Querini di Santa Maria Formosa – che già dal XVI secolo arricchiscono la loro dimora acquistando e commissionando opere d’arte, costituendo così una delle più ricche raccolte della città lagunare.
L’ARTE PER TUTTI
«Esse vengono man mano incrementate a seconda del gusto delle diverse epoche arrivando fino al secolo XIX, quando l’ultimo erede, il conte Giovanni, nel suo testamento del 1868 dispone che i suoi beni – il cinquecentesco palazzo di famiglia e tutto il patrimonio – divengano “d’uso pubblico”. Istituisce così una Fondazione con una biblioteca per i “buoni studi” e apre la sua dimora al pubblico, offrendo una casa museo unica in città. Tra arredi antichi, lampadari di Murano, porcellane e sculture, sono conservati dipinti veneti, italiani e fiamminghi dal XIV al XIX secolo», racconta Elisabetta Dal Carlo, curatrice del museo e delle manifestazioni culturali per la fondazione Querini.
«Negli ultimi decenni si è lavorato su un allestimento sempre più vicino alla casa museo, ricreando ambienti domestici che diventano uno specchio della vita di una ricca e nobile famiglia nel fasto settecentesco. Grazie alla presenza dei documenti d’archivio, la ricostruzione di alcuni ambienti è molto dettagliata e arricchita dalla presenza di oggetti d’arte che raccontano in prima persona la storia del quotidiano e del vissuto degli antichi padroni di casa. Salotti di rappresentanza, portego, camera nuziale, sala da pranzo e studiolo documentano in modo esemplare il gusto dei nostri antenati».
METODOLOGIE E FIGURE PROFESSIONALI CHE L’HANNO REALIZZATO IL NUOVO ALLESTIMENTO
«Occuparsi di accessibilità, interpretazione, inclusione e audience development e di altri temi di cambiamento presenti nel dibattito internazionale della cultura, ci ha permesso di comunicare in modo diverso e innovativo i contenuti del Museo, trasformando un’esigenza in una vera opportunità di cambiamento», spiega Babet Trevisan, responsabile del museo. «Abbiamo iniziato dall’analisi dei nostri pubblici mirata a valutare l’efficacia dell’apparato di comunicazione e quindi l’accessibilità delle collezioni».
Le indagini, strutturate con questionari e interviste dirette, hanno fornito informazioni preziose sulla funzione delle didascalie e sugli allestimenti museali, portando alla luce punti di forza e criticità del percorso espositivo. «Da questo lavoro è emersa la necessità di un cambio di mentalità: si doveva acquisire un diverso metodo di lavoro e intraprendere un percorso di formazione del personale proprio a partire dalla letteratura per l’infanzia per imparare a raccontare delle storie in modo semplice e coinvolgente».
È iniziato così, con sempre maggiore consapevolezza e competenza, il nuovo percorso di reinterpretazione delle collezioni: «In questo contesto – prosegue Trevisan – non aveva più significato la singola opera all’interno di uno spazio rigido, ma il suo inserimento in contesti narrativi aperti in grado di coinvolgere emotivamente il pubblico e suggerire riflessioni su temi sensibili della contemporaneità. È stata una bella sfida e ci siamo messe tutte in discussione».
La vera sfida – essendo le professioniste che si sono occupate del lavoro storiche dell’arte, abituate a scrivere con un linguaggio accademico, ricco di descrizioni e termini tecnici – è stata quella di narrare puntando sulla sintesi senza risultare banali: «Abbiamo costituito un gruppo di lavoro trasversale con un approccio interdisciplinare: storiche dell’arte, bibliotecarie, archiviste, sempre a stretto contatto con la Direzione, definendo da subito ruoli e responsabilità e prediligendo un confronto continuo. In questo percorso abbiamo anche collaborato con imprese creative del territorio, come la libreria per ragazzi Il Libro con Gli Stivali e We Exhibit, attingendo così a competenze diverse dal mondo della narrazione, del design e della grafica».
Per non perdere di vista l’obiettivo finale, è stato stilato un piano interpretativo individuando in ogni sala il tema da trattare, le opere da approfondire, gli aneddoti e le curiosità da raccontare. «Abbiamo stabilito il giusto tono di comunicazione facendo un lavoro puntuale sulla scelta delle parole, eliminando i verbi e gli aggettivi che potevano sembrare poco inclusivi».
LA SALA DELLA MITOLOGIA DEDICATA AL GENERE
Fra i tanti ambiti di ricerca, ce n’era uno che andava approfondito con più urgenza, anche rispetto a una riscrittura della storia veneziana: quello sulla “categoria di genere”, definita da Joan W. Scott, in uno dei più importanti contributi storici sul tema, come “un elemento costitutivo delle relazioni sociali passato sulla percezione delle differenze fra i sessi e una delle modalità principali di dare significato alle relazioni sulla base del genere”.
«Il fine era scoprire i ruoli, le relazioni, il simbolismo sessuale, gli equilibri di potere presenti in una società del passato, funzionali al mantenimento o al mutamento di un ordine sociale», spiega Angela Munari, un’altra delle curatrici della Fondazione Querini. «Il processo di analisi delle relazioni fra uomo e donna va quindi riletto e ridescritto, tenendo conto che si tratta di due categorie “vuote e sovrabbondanti”, perché non hanno un valore semantico definitivo e perché non rimangono fisse nel tempo, nonostante i tentativi del potere politico e religioso di renderle trascendenti e immutabili, radicandole a un assetto esclusivamente binario».
Di fronte a una prospettiva tanto complessa, le curatrici hanno pensato che esaminare alcune rappresentazioni mitologiche del genere e dell’identità sessuale potesse essere utile per andare alla radice di alcune tematiche importanti, come il rapporto tra sessi, l’amore tra persone dello stesso sesso, il travestitismo, lo scambio di identità, temi già sviscerati dai padri della psicanalisi: «Partendo dal mito, presente nelle nostre collezioni, restava comunque essenziale demitizzare l’idea dell’amore tra persone dello stesso sesso nella Grecia classica, trattandosi di una concezione “radicalmente differente da [quella] moderna dell’omosessualità, [tanto] da rendere le loro prospettive irrilevanti per il nostro modo di vivere”, come afferma Christine Downing, una delle massime studiose di storia delle religioni, in Myths and mysteries of same-sex love».
Nella Grecia classica, al pari di altre società antiche, i rapporti sessuali erano infatti considerati delle relazioni di potere tra un soggetto dominante e un soggetto inferiore. Il gioco di forza però non era necessariamente tra maschio e femmina, ma tra un soggetto attivo e un altro passivo. «Questa premessa sul Mito è stata indispensabile – sottolinea Angela Munari – per evitare di cadere nel tranello di facili sovrapposizioni tra passato e presente».
«Nel 1986 Joan W. Scott nel suo studio Gender: a useful category of historical analysis, considerato una pietra miliare sul tema dell’identità di genere, afferma che le parole hanno una storia, così come le idee e i concetti che le esprimono», conclude Munari. «Pensare di cambiarle con “quasi sinonimi” o di rivestirle con una semantica del “politicamente corretto” ne avrebbe travisato l’origine, il contesto e la loro natura di documento (dal latino doceo), ossia di rappresentazione stessa di un determinato ambito storico e sociale».
Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti frutto della collaborazione fra Hangar Piemonte e Italia Che Cambia che ha lo scopo di raccontare la trasformazione culturale che stanno mettendo in atto persone, organizzazioni e intere comunità intorno a noi.
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