Quegli alberi che in Senegal fanno fiorire biodiversità e fermano la desertificazione
Seguici su:
Il ritmo della deforestazione in Africa sta crescendo a ritmi vertiginosi e questo porta a svariate conseguenze: nelle aree costiere occidentali, per esempio, può contribuire a intensificare temporali e inondazioni, che stanno già aumentando, via via che il clima continua a riscaldarsi. Secondo il recente studio del WWF Fronti di deforestazione: cause e risposte in un mondo che cambia, negli ultimi dieci anni in Africa si è registrata un’accelerazione della deforestazione da 3,4 a 3,9 milioni di ettari annui. In Africa, però, c’è un altro fenomeno da tenere d’occhio: la desertificazione e la conseguente necessità di salvare il suolo.
È il 2007, siamo nel nord del Senegal, nella parte più arida della nazione – a sud si trova la zona tropicale – e Roberto Salustri – che ci ha già raccontato di altri suoi progetti di riforestazione in Africa e America Latina –, dell’Ecoistituto Reseda, approda in un villaggio abitato da circa 500 persone, Ouarkokh. Una volta lì inizia a collaborare con il corpo forestale senegalese per portare avanti un progetto che mescola riforestazione e agro-ecologia, Stop the desert.
Roberto, parlaci di questo progetto.
Quindici anni fa con Stop the desert realizzammo una prima area riforestata in Senegal delle dimensioni di oltre trecento ettari. Ma non eravamo soli: al fianco di Reseda c’era un’associazione svizzera, Ingegneri senza Frontiere, che ci contattò per portare avanti insieme dei progetti ecologici internazionali. La maggior parte del lavoro la fece il corpo forestale, con piantine e piccoli alberi, le cosiddette “fitocelle”; dopodiché il villaggio, grazie ai fondi ottenuti da Ingegeneri senza frontiere, ci aiutò a fare la perimetrazione dell’intera zona. Riforestammo poi altre due aree qualche anno dopo e in totale dal 2007 a oggi abbiamo piantato mezzo milione di alberi.
E poi?
Il progetto purtroppo si bloccò, l’associazione era composta prevalentemente da giovani che poi, per un motivo o per l’altro, hanno preso altre strade. Nel tempo però ci siamo occupati della manutenzione delle perimetrazioni di tutta l’area verde, che è un lavoro comunque fondamentale. Le zone appena riforestate infatti nei primi anni devono essere recintate con cura perché le piantine rischiano di diventare il pranzo dalla fauna locale.
Il punto è che il pascolo è purtroppo causa della deforestazione: questa zona dovrebbe essere savana, è il Sahel, che letteralmente significa “bordo del deserto”, la fascia appena sotto. La colonizzazione, la povertà, l’allevamento e gli incendi hanno portato la savana a diventare un deserto roccioso: una zona di fatto desertificata dall’uomo. Quello che ad oggi rimane purtroppo è zero, non restano nemmeno la fauna e la flora del deserto. E poi quando qui piove la pioggia si porta via il terreno, scava fino alla roccia.
In questo contesto però c’è la Grande Muraglia Verde per il Sahara e il Sahel, un’iniziativa africana avviata nel 2007 e portata avanti nell’ambito della lotta agli effetti del cambiamento climatico e della desertificazione che vuole migliorare le condizioni di vita di milioni di persone. Il progetto, che si estenderà per quasi ottomila chilometri, attraversa tutta l’Africa in tutta la sua larghezza, passando, tra gli altri, per il Burkina Faso, la Mauritania, il Niger. Una “barriera verde” per opporsi all’avanzata del deserto. Queste aree aiutano anche la popolazione locale, perché laddove c’è scarsità di pascoli, le piante servono per il foraggio per gli animali.
E come s’è evoluto il progetto?
Nel 2017, dieci anni dopo, vengo contattato da ARCS, l’associazione dedita a iniziative di solidarietà, cooperazione e volontariato internazionale fondata da ARCI, che mi propone un progetto per la sovranità alimentare in Senegal, esattamente nello stesso villaggio dove eravamo stati nel 2007. L’obiettivo? Far rinascere la terra attraverso l’agricoltura per aiutare la popolazione locale, in collaborazione con un partner in loco, Le Djolof, nella persona di Touty Coundoul. All’interno della riserva forestale di Nguith abbiamo realizzato una fattoria agroecologica, dove oggi lavorano diverse persone e che è per noi una base importante che ci permette di “produrre” direttamente gli alberi da piantumare.
A Nguith ritrovo il villaggio dove avevamo piantato gli alberi dieci anni prima. Abbiamo così unito l’agro-ecologia con la riforestazione. Proprio a partire da questa emozione prende slancio una nuova iniziativa per riforestare quella zona del Sahel e riusciamo a realizzare un vivaio forestale che produce circa 50000 alberi all’anno.
Come sono ora le piantine del 2007?
Le nostre foreste sono diventate grandi, abbiamo visto quanto il paesaggio e l’ambiente si siano modificati negli anni, per questo ora stiamo cercando di continuare. Di recente siamo stati coinvolti in un progetto canadese di studio di queste aree per valutare l’efficacia di piantare alberi nella Grande Muraglia Verde, capire quanto cambia il clima grazie alle foreste che abbiamo piantato. Ormai si può dire che questo sia diventato un progetto di un certo spessore.
State riuscendo a proseguire?
Ora come ora ci sono un po’ di difficoltà dovute principalmente alla mancanza di fondi e al fatto che la popolazione locale ha ancora bisogno di acquisire competenze. In questo momento però, insieme ad altre associazioni, stiamo cercando di porre le basi per una rete d’appoggio. L’idea è creare altre riserve naturalistiche, non solo aziende agro-ecologiche, ma anche aree per la salvaguardia della biodiversità, con alberi autoctoni e alberi da frutto.
L’obiettivo è autoprodurci questi ultimi a partire dal seme, per esempio di melograno, limone e mango, perché in Senegal la frutta è rarissima a causa di problemi di riduzione delle risorse idriche: è una terra in cui purtroppo non cresce nulla. Questi alberi poi li distribuiamo alle scuole – abbiamo formato alcuni ragazzi come educatori ambientali che spiegano agli alunni come prendersene cura –, li regaliamo agli agricoltori locali e li portiamo nei villaggi. Sul piano della biodiversità ora registriamo la presenza di tantissimi uccelli che prima non c’erano, sono tornati un felino che non si vedeva da tanti anni, ma anche anfibi, rospetti che vanno in giro qui e là: inutile dire che questo ritorno di vita ci ha entusiasmato moltissimo.
Un progetto sfaccettato e dalle mille potenzialità soprattutto per gli abitanti dei villaggi coinvolti.
Esatto. E quello che riscontriamo è che in Senegal c’è non solo una popolazione residente con tanta voglia di fare, ma anche un’economia che sta fiorendo. Insieme alle condizioni dell’ambiente poi migliora anche la vita della popolazione locale: abbiamo piantato alberi di acacia senegalensis – da cui si ricava la gomma arabica –, il sump, un arbusto spinoso da cui si ottiene l’olio di dattero, il neem da cui si estrae il noto olio antibatterico, il baobab, dal cui frutto si ottiene una farina ricchissima di calcio che viene utilizzata come integratore alimentare. L’uso dei frutti di questi alberi autoctoni, sia sotto forma di succhi di frutta che come integratori alimentari, arricchisce molto l’alimentazione quotidiana della popolazione locale.
Il progetto è sostenuto da una raccolta fondi di cui si occupa Reseda: chi volesse partecipare, qui può ricevere maggiori informazioni.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento