10 Feb 2023

Stella Saladino: “Le piante possono insegnarci tantissimo, dovremmo imparare a pensare come loro”

Il percorso personale e professionale di Stella Saladino ha raggiunto molti approdi, sempre però mantenendo un minimo comune denominatore: il rapporto con il mondo vegetale. Già, perché secondo Stella abbiamo tantissimo da imparare dalle piante e se lo facessimo potremmo modificare il nostro stesso modo di pensare, trasformandolo in senso ecologico ed ecosistemico. L’articolo fa parte di una serie di approfondimenti, realizzati in collaborazione con Hangar Piemonte, per raccontare la trasformazione culturale di persone, organizzazioni e comunità.

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Bologna, Emilia-Romagna - Scoprire il mondo delle piante è l’incontro con un apparato sensoriale: non un in-dividuo, ma un corpo-colonia predisposto per gli innesti, la modularità, l’interdipendenza. Tutti valori a cui possiamo “allenarci” e che, nell’incontro con questa diversità estrema, possono ispirare nuovi modelli di comportamento. È l’artista e ricercatrice Stella Saladino a inaugurare il racconto delle buone pratiche del progetto Hangar Piemonte.

Dalla sua avventura nell’universo vegetale Stella da poco ha pubblicato un libro, Pensa come una pianta. La sezione finale è costituita da una serie di workout che chiunque può fare. È interessante pensare all’extrasensorialità dei nostri amici vegetali, sensibili ad almeno venti parametri chimico-fisici che consentono loro di percepire cambiamenti sottili anche in largo anticipo. Impossibile non pensare a noi essere umani, al nostro essere immersi in enormi quantità di dati e informazioni e alla nostra incapacità di relazionarci a fenomeni complessi come guerre, pandemie, crisi climatiche.

Cosa farebbe una pianta con tutte queste informazioni? Come modificherebbe i suoi comportamenti? Cosa stiamo facendo noi di questi dati, che oggi sono anch’essi parte del nostro ambiente? È questa una domanda che interroga il pensiero ecologico-ecosistemico contemporaneo, verso la quale il metodo di Stella Saladino apre sentieri ancora tutti da esplorare.

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La tua relazione con il mondo vegetale nasce da una forma di riconoscimento: a un certo punto della tua vita le piante entrano a far parte del tuo ecosistema relazionale. Cosa è successo?

Il “riconoscimento” che è avvenuto in relazione al mondo vegetale appartiene per me all’ambito dell’osservazione, nella misura in cui osservare si colloca come atto di conoscenza scientifica e relazionale. Focalizzare l’attenzione su un’altra vita, su un aspetto del vivente fuori dal mio corpo, diverso, a me alieno mi ha portato a vedere e sentire in modo differente da come facevo abitualmente. Calarmi all’interno del mondo vegetale ha trasformato la mia prospettiva e il mio sguardo irrimediabilmente, ricollocandomi in un sistema più ampio e facendomi assumere nuove posture, a volte anche molto scomode, che mi hanno imposto un’ottica non più solo individuale, ma interdipendente. 

Mi sono chiesta: se non fossi stata pianta sarei mai stata in grado di riconoscere sul serio il mondo vegetale come sistema vivente e intelligente? Mi piace raccontare che sono stata pianta, perché le mie gambe erano a tratti piantate nella terra. Un senso di immobilità in cui confrontavo il modello cognitivo umano con quello delle piante che osservavo. Vivevamo la stessa apparente immobilità esterna, ma con un differente modo di reagire. Io limitata in quanto essere umano, le piante naturalmente abituate a questo stato.  Ho imparato così che le piante non sfuggono ai problemi, ma ci affondano le radici. Senza scappare verso ambienti più confortevoli. “A contatto con il problema” come scrive Donna Haraway in Staying with the trouble.

Da questa “empatia” fra intelligenze umane e non umane nasce un percorso artistico e di ricerca: ce lo racconti?

Mi sono ritrovata a pensare che forse le migliori idee potrebbero essere non le nostre, ma quelle delle piante. Questa è la mia materia di studio e di osservazione., fino a diventare la tesi del mio percorso di master in neuroscienze e trasformarsi nel mio lavoro attuale: portare innovazione nelle organizzazioni, ma anche a studenti di design o a chiunque voglia capovolgere la propria mente e scoprire nuovi modi di pensare e di creare. 

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Ognuno di noi può essere considerato designer, ognuno “disegna” continuamente qualcosa nella realtà del vivente, che sia a livello puramente concettuale o sotto forma di creazione o tecnologia. La mia ricerca si sviluppa e si intreccia con l’esperienza delle persone che seguono i miei percorsi. Ogni workshop che conduco diventa performativo, atto unico di scoperta, rivoluzione interiore e collettiva di chi vi partecipa. L’arte è per me ricerca e soprattutto modalità di conoscenza tramite l’esperienza diretta.

Prendere in considerazione non solo gli esseri umani ma anche le altre forme di vita e le diverse dinamiche che ci legano tutti, credo sia un’esperienza profondamente ecologica, una vera e propria “ecologia della mente” come dice Gregory Bateson, una scienza che ancora non esiste come corpus organico di teoria o conoscenza, ma che è più vasta e sottesa, un connettivo dell’intero mondo biologico che abitiamo.

La diversità è la chiave che rende gli ecosistemi capaci di sopravvivere, rispondere agli imprevisti ed evolvere: cosa possiamo imparare dalle piante?

Una riflessione a cui sono giunta è che le piante nel loro percorso evolutivo a un certo punto hanno compreso che quello che era stato il loro habitat fino ad allora, ovvero l’acqua, sarebbe diventato potenzialmente un limite alla loro evoluzione e quindi anche alla loro sopravvivenza. Potevano fermarsi lì, limitarsi a quel tipo di vita. Ma si sono spinte oltre. Hanno fatto di quel limite una risorsa. Hanno cambiato completamente il loro modo di vivere. Primum vegetari, deinde radicare. Così hanno fatto dell’acqua il primo mezzo di diffusione per spostarsi e riprodursi, conquistare e colonizzare la terraferma. 

Calarmi all’interno del mondo vegetale ha trasformato la mia prospettiva e il mio sguardo irrimediabilmente, ricollocandomi in un sistema più ampio

Le piante risolvono i problemi rimanendo nel problema. Questo è l’assunto base a cui sono giunta nella mia ricerca, per me il più grande insegnamento vivente di questo sistema. L’essere umano nasce con inscritto nel dna l’individualità – dal latino individuus: indivisibile –, la pianta nasce come colonia. La pianta è modularità per eccellenza. Niente di più estremo. La pianta è già intrinsecamente intelligenza collettiva, non è mai un individuo singolo. Il mondo vegetale vive in modo “consapevole” l’interdipendenza fin dall’inizio, è con gli “altri” continuamente.

Come si svolge e in cosa consiste una sessione tipo del tuo particolare coaching?

Porto nelle aziende e nelle organizzazioni un tavolo pieno di piante-coach e facilito un plants-storming che stimola pensieri innovativi nel team o nel gruppo di lavoro. Ho portato con me questi esseri viventi in tanti contesti ma nessuno le ha mai prese particolarmente in considerazione o sul serio inizialmente. Nei primi minuti di solito si respira nell’aria un senso di pregiudizio, paura, scomodità, diffidenza e disorientamento. Nessuno, tanto meno nelle aziende, è abituato a prendere sul serio le piante, come innovation manager. Ammettere che altri esseri viventi detengono un’intelligenza pari o superiore alla nostra è troppo scomodo per noi esseri umani. 

I miei percorsi si svolgono volutamente sempre in indoor, perché uno degli scopi principali è quello di cambiare atteggiamento nei confronti delle piante: da oggetti di abbellimento a protagoniste, consulenti strategiche a cui rivolgersi. Immaginatevi dunque luoghi dove la natura non è potuta arrivare, che si riempiono di piante in vaso di vario genere, ospiti di una grande azienda per un giorno. Ogni partecipante sceglierà la propria pianta-coach con cui fare il percorso, a cui rivolgersi per l’individuazione di nuove idee rispetto a un progetto o problema.

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Che significa “pensare come una pianta” e perché secondo te è importante in particolare per le aziende e le organizzazioni?

Quello che propongo è un atto rivoluzionario secondo me necessario in questo momento; oserei dire che è un atto totalmente “contro natura”. Il nostro cervello infatti per secoli non si è accorto delle piante ed è stato spesso vittima di illusioni e deformazioni. Il mondo che noi percepiamo è in fondo nettamente diverso da quello che è nella realtà – come dice Bateson in Mente e Natura, “non esiste esperienza oggettiva: l’esperienza del mondo è sempre mediata da specifici organi di senso e da specifici canali neurali”. Quando guardiamo le piante le crediamo immobili e non intelligenti. Questa distorsione visiva e cognitiva ha resistito secoli, con le dirette conseguenze facilmente intuibili.

Scenari mutevoli e complessi si stanno facendo sempre più frequenti, ma possiamo decidere di mutuare da altri sistemi alcune caratteristiche e nuove capacità che ci consentano di poter leggere questi scenari con maggiore abilità. Come scrive Donna Haraway, “a dire il vero, restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come un evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati”.

Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti frutto della collaborazione fra Hangar Piemonte e Italia Che Cambia che ha lo scopo di raccontare la trasformazione culturale che stanno mettendo in atto persone, organizzazioni e intere comunità intorno a noi.

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