17 Feb 2023

Nel Sahara Occidentale si piantano alberi al posto delle mine antiuomo

Scritto da: Valentina D'Amora

«Per ogni mina levata dal Sahara Occidentale, un albero pianteremo». Questo è l'obiettivo di un progetto di cooperazione internazionale che affonda le sue radici nella sabbia del deserto del Sahara. Di "Un albero per ogni mina" ci ha parlato Roberto Salustri, dell'Ecoistituto Reseda.

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Oggi vi portiamo di nuovo in Africa, nel deserto del Sahara, per parlare di un bel progetto di riforestazione nei campi per rifugiati Saharawi in Algeria e nel Sahara occidentale. Ho fatto due chiacchiere con Roberto Salustri, il quale mi ha raccontato di un altro progetto dell’Ecoistituto Reseda – dei giovani ecologisti della Repubblica Democratica del Congo abbiamo parlato qui –, relativo a orti solari familiari e comunitari nelle aree aride del Sahara Occidentale che dal 2007 sostengono la sovranità alimentare del popolo Saharawi, costretto a vivere nel deserto a causa dell’occupazione militare delle sue terre. Si chiama “Un albero per ogni mina”.

Roberto, raccontaci intanto in che contesto è nato questo progetto di cooperazione.

Il Sahara Occidentale è stata una colonia spagnola, fino a quando non è caduta la dittatura in Spagna nel 1975. In quell’anno attraverso l’ONU inizia il processo di decolonizzazione dell’area che, in realtà, non avviene proprio del tutto.

vivaio roberto
Roberto insieme a Mohamed Wadad, all’interno di un vivaio forestale

Cos’è successo? Attraverso l’accordo di Madrid, un trattato firmato il 14 novembre 1975 da Spagna, Marocco e Mauritania per porre fine alla presenza spagnola nel territorio del Sahara, la Spagna ha nei fatti lasciato il possedimento africano al Marocco, a cui assegna la parte a nord del Sahara, e alla Mauritania, a cui attribuisce la parte a sud e a est. L’accordo, però era in conflitto con la legge sulla decolonizzazione del Sahara, ratificata dal parlamento spagnolo il 18 novembre dello stesso anno, qualche giorno dopo.

Il territorio, quindi, sarebbe stato diviso tra Marocco e Mauritania, senza alcun riconoscimento per il Fronte Polisario, Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, un’organizzazione militante nata nel ‘73 e un movimento politico attivo nel Sahara Occidentale per la realizzazione del diritto all’autodeterminazione. A seguito degli accordi, il Fronte inizia un conflitto proprio contro i due paesi che si conclude con il “Cessate il fuoco” nel 1991. Nel frattempo, nel mese di febbraio del 1976 la Spagna completa il ritiro delle proprie truppe e l’evacuazione dei coloni dal Sahara Occidentale.

A fronte della tenacia del Fronte Polisario, la Mauritania cessa le ostilità sul fronte meridionale e riconosce ufficialmente la Repubblica Araba Saharawi Democratica, detta RASD. Il re del Marocco Hassan II, invece, decide di avviare la costruzione di una barriera difensiva, chiamata da molti “il muro della vergogna”, che divide i territori “utili” del Sahara Occidentale da quelli privi di risorse minerarie. Si tratta di un muro lungo quasi 3000 km – esattamente 2700 km, ndr –, fiancheggiato da nove milioni di mine antiuomo e anticarro. Il muro è tuttora esistente.

Da qui il nome del vostro progetto, “Un albero per ogni mina”.

Esatto. In quel periodo i civili Saharawi si rifugiano in Algeria, in pieno deserto, dove vengono allestiti dei campi profughi. Queste persone, lì ormai da 40 anni, vengono supportate dalle Nazioni Unite, ma la situazione è ancora oggi in stallo. L’intento, adesso, è quello di eliminare le nove milioni di mine e al loro posto piantare degli alberi. Al momento siamo a quota mille.

orto solare saharawi
Un orto solare familiare

Quando siamo arrivati la prima volta in questo territorio, nel 2007, abbiamo per prima cosa pensato di dotare di impianti fotovoltaici gli ospedali e poi di avviare alcuni orti solari familiari. Si tratta di piccoli orti, alimentati da un modulo fotovoltatico utile per la luce notturna delle famiglie che, proprio grazie a questi appezzamenti, hanno anche la possibilità di coltivare prodotti freschi. L’alternativa, infatti, sono aiuti umanitari e alimenti confezionati.

Da qui è nato il progetto dedicato agli orti familiari nato dallo spunto del prof. Andrea Micangeli del CIRPS – Centro Interuniversitario di Ricerca Per lo Sviluppo Sostenibile dell’Università La Sapienza di Roma.

Quindi la base di partenza del progetto è stata quella di migliorare la quotidianità dei profughi anche sul piano della salute, attraverso un’alimentazione più equilibrata.

Sì, quello che si riscontra è l’altissima incidenza di diabete e celiachia e anche l’ultima recente riunione con la rete di appoggio al popolo Saharawi ce l’ha confermato. L’11% dei bambini in questi villaggi è celiaco e questo è un dato allarmante, rispetto al 3/4% della media mondiale.

Il progetto, in realtà, adesso è più articolato perché da una parte tocca la questione cibo fresco – quest’anno abbiamo avviato altri venti orti proprio per migliorare la vita nei campi rifugiati –, oltre ai vivai forestali di alberi autoctoni, includendo varietà da frutto, per integrare l’alimentazione all’interno dei villaggi e degli ospedali, ma diamo anche appoggio a un gruppo di giovani donne che facevano e che fanno tuttora le sminatrici. Dove ieri c’erano le mine, quindi, oggi ci sono alberi che, come dicevo, fanno parte anche degli orti familiari.

Attualmente, rispetto al 2007 ci siamo spostati dai campi per rifugiati in Algeria ai territori liberati che, però, al momento sono ancora minati. L’idea, quindi, è usare gli alberi per delimitare le ex aree minate – ora sminate – e far capire anche visivamente quali sono i territori sicuri.

foto albero piantato
Piantumazione di un albero in mezzo al deserto del Sahara occidentale: la rete (shelter) protegge l’albero dai cammelli e dalle capre, e la ruota indica l’albero finché è piccolo
Quali alberi avete scelto?

Dopo uno studio sugli alberi autoctoni, abbiamo anche lavorato sulla scelta di quali alberi da frutto fossero i più indicati per quest’area geografica. I requisiti, quindi, erano soprattutto una buona resistenza al caldo del deserto: abbiamo optato per melograno, olivo e moringa, una pianta considerata a tutti gli effetti un superfood in grado di fornire ferro, calcio e vitamine. L’abbiamo inteso come un integratore alimentare, per questo l’abbiamo piantumato innanzitutto intorno agli ospedali, per fornire questi frutti soprattutto alle donne partorienti o alle pazienti in carenza di ferro.

Abbiamo parallelamente anche realizzato un libro in lingua ḥassāniyya, in collaborazione con il Ministero della Cultura, da distribuire alla popolazione, allo scopo di spiegare tutti i vari scopi, usi e benefici dei frutti degli alberi scelti.

E ora?

Quello che vogliamo fare adesso è restaurare un’oasi troppo sfruttata, il luogo dove è stato allestito il primo campo per rifugiati in Algeria. Se da una parte è normale che ci sia una maggiore pressione antropica in quest’area, dall’altra l’obiettivo è quello di lasciare i campi profughi algerini come sono stati trovati. «Gli algerini ci hanno aiutato, ospitato e difeso», afferma Fatima Mahfud delegata della RAD in Italia. I profughi Saharawi, infatti, dopo aver percorso chilometri e chilometri a piedi, hanno trovato questa che è un’oasi importante, anche storicamente, che merita di tornare com’era prima.

Il progetto è sostenuto da una raccolta fondi di cui si occupa Reseda: chi volesse partecipare, qui può ricevere maggiori informazioni.

La foto di copertina è di Maria Novella De Luca.

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