La storia di Reza, rifugiato iraniano: “Sono sopravvissuto al carcere e racconto cos’è l’Iran di oggi”
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Padova, Veneto - Avete mai provato a correre con delle scarpe senza lacci? È tendenzialmente difficile. Eppure Reza e Amin non ci pensano due volte e iniziano a correre più veloci che possono. I lacci delle scarpe ce li hanno, ma hanno paura di fermarsi a metterli. Tutto quello che vogliono è scappare da quell’incubo senza fine che è il carcere Evin di Teheran, da cui sono stati appena rilasciati dopo quasi un anno di detenzione.
Ora siamo nel salotto di casa sua, in provincia di Padova. Reza è un ragazzo iraniano di quarant’anni e io ho la fortuna di potermi sedere davanti a lui e ascoltare la sua potentissima storia, che mi racconta con dolore ma grande generosità. È cresciuto nella metropoli di Teheran in una famiglia non religiosa, ha cinque fratelli e ha iniziato molto giovane a lavorare: cambia molti lavori, fa l’autista, apre un suo negozio di cosmetici e vestiti.
Parlare di politica in casa sua è cosa all’ordine del giorno, Reza da sempre sente i racconti di chi entra in prigione e ha la fortuna di tornare. Cresce con precisa coscienza di cosa voglia dire vivere in Iran e non essere religiosi, non essere come il regime ti vuole. Sa che protestare, come molte altre cose, non è un diritto riconosciuto. Nel 2010 la Protesta Verde chiede riforme. Reza è tra quelli che a quelle riforme non crede: «Il regime doveva andare via, e basta», mi dice. Ma aderisce a quelle giornate per avere una possibilità di scendere in piazza insieme ad altre migliaia di persone.
Anteprima: https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2022/12/IRAN-INMR-4-anteprima.mp3
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Name: Tutto quello che devi sapere sulle rivolte in Iran
Autore: Andrea
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Filename: IRAN-INMR-4-anteprima
Di ritorno, una sera, vengono fermati dalla polizia, sono oltre il coprifuoco, sono sospetti. Tre giorni di interrogatorio e poi Evin. Cella 42, corridoio 209, «uno di quello per i prigionieri politici», mi spiega. Lì dentro la tua vita non è più cosa tua, la polizia decide quando entri, quando (e come) esci, nessuno di esterno può accedere a quei luoghi. La cella è due metri per due, ci sono un lavandino, un water, un piccolo termosifone, una piccola finestra lì in alto e sette coperte. Reza ne usa quattro come materasso e tre per coprirsi la notte.
È stato difficile per me ascoltare quello che Reza mi ha raccontato di quei mesi e non immagino cosa sia stato per lui ricordarli ancora una volta, ma soprattutto viverli. Interrogatori nel pieno della notte, violenze fisiche e psicologiche, droghe, isolamento, spaesamento. Cosa rimane in quel momento della dignità e dell’umanità di un uomo?
Io, nella mia ingenuità da eterna ragazzina occidentale, non riesco a capire come funzionano le cose in questi casi. Reza pazientemente me lo spiega: «Vogliono che firmi, devi sottoscrivere i documenti che preparano per te, dove ti dichiari colpevole di ciò che non hai fatto. Tu devi resistere, altrimenti hai già perso tutto, anche la vita». Gli chiedo cosa lo ha fatto andare avanti: «I racconti di chi ci è stato prima di me. Sono cresciuto a Teheran, sapevo che solo se non avessi firmato avrei avuto una possibilità di uscirne vivo. E poi mia mamma, il pensiero di lei. Non avevo moglie e figli allora, solo lei».
Ogni tanto, dalla grata sulla porta, riesce a parlare con Hosein, nella cella 41. Lui è lì da tredici mesi, ha una moglie e una figlia che di lui non sanno più nulla. Si fa promettere da Reza che, se fosse uscito prima, sarebbe andato a trovarle. E così fece. Ma manca ancora molto tempo prima che questo avvenga. Dopo circa cinque mesi in quel reparto, Reza viene trasferito nelle celle condivise, in un’ala del carcere che qui definiremmo quasi “civile”: visite dai parenti, maggiori diritti, fine dell’isolamento. E infine il rilascio e la corsa (senza lacci) verso casa.
Riprendo a respirare un po’ anche io che lo ascolto. Il ritorno non è facile, le notti sono costellate da incubi e per ritrovare il proprio posto nel mondo ci vuole tempo. Ci si perde un po’, forse non si sa nemmeno come chiedere aiuto. Alcuni non si riprendono mai del tutto, ma Reza ce la fa ancora, anche grazie a quella meravigliosa donna che ora è sua moglie. Conosco Maya da prima di Reza, perché i nostri figli (spoiler) sono stati a scuola assieme. Maya è solare, sempre sorridente, non sembra affatto una donna in credito con la vita.
A questo punto la loro storia si unisce. Il loro amore è fulmineo, si riconoscono come anime che “sanno com’è la vita” e dopo un anno si sposano. Maya da qualche tempo aveva cambiato religione – altra cosa non permessa dal regime – e organizza incontri con amici cristiani a casa loro. Dopo poco la polizia segreta li individua e li cerca. E a loro non rimane altra scelta che fuggire. Lasciare tutto – casa, famiglia, amici, lavoro, identità – e fuggire. Prima in Turchia e poi, con passaporti rubati, in Italia, primo Paese sicuro ad accoglierli.
Qui ci sarebbe materiale per un romanzo, ma il mio pomeriggio è finito, così Reza mi riassume un anno di vagabondaggio tra Italia, Svizzera, Austria in pochi minuti. Nel 2017 nasce la loro bimba, Nirvana, e loro decidono di fermarsi e ricominciare una vita da rifugiati politici proprio qui, a Padova. Ora, cinque anni dopo, Reza e Maya hanno entrambi un lavoro, una casa, una vita.
Anche in Italia il percorso è stato difficile, tra burocrazia, lingua, mancanza di legami. Ora hanno creato loro stessi quello che avrebbero voluto trovare: un centro di Solidarietà Iraniana. Una rete di iraniani aperta al pubblico dieci ore a settimana nella sede di Coalizione Civica per Padova. Organizzano incontri con le scuole, con i Comuni, con la cittadinanza, per raccontare cos’è l’Iran di oggi. In questo periodo sono scesi in piazza a supporto delle proteste che stanno avvenendo nel loro Paese e in cui muoiono decine di giovani.
Gli chiedo come vede ora il futuro, gli chiedo se pensa, in un futuro, di raccontare tutto a sua figlia. Mi ci vogliono giorni per elaborare il racconto di Reza. Credo che sia un peccato sprecare la vita a guardare le cose con solo un paio di occhiali. Quando crediamo che la nostra realtà sia l’unica possibile, allora è il momento di viaggiare. Oppure di ascoltare storie di persone che vengono da lontano.
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