Seguici su:
È un presagio prima ancora che una percezione. Deve trovarsi vicino, non perché ne sia certa, ma perché non può che essere così. Glielo dicono la pancia e la bocca umida. Il naso ora è il primo a non accontentarsi più di un’illusione. Ha scovato un profumo in mezzo alla polvere e il corpo ora lo sta seguendo a ruota. Svolta l’angolo e lo vede: è un forno.
Siamo a Kobanê. È il mese di marzo 2015. La città era stata appena stata liberata dall’ISIS – da cui da settembre 2014 aveva subito attacchi brutali, con artiglieria pesante e carri armati – e la fotografa Maria Novella De Luca si allontana dalla casa in cui si trovava insieme ad altri giornalisti e attivisti, da sola e senza traduttore, catturata dal più atavico dei profumi. Quello del pane appena sfornato.
«Mi ricordo di aver seguito l’odore e di essere arrivata al forno. Da lì un dialogo senza parole con le persone presenti, solo attraverso gli occhi. Silenziosamente camminavo, vedevo questi lunghi rulli che trascinavano numerosi dischi di pane piatto, caldo e profumatissimo e mi sono messa a osservare il loro lavoro», mi racconta la fotoreporter.
Quello di Kobane è stato l’unico forno della città a rimanere aperto durante i quattro lunghi mesi di assedio dell’Isis, continuando a lavorare a pieno ritmo per garantire il pane alla città e ai villaggi vicini. Costruito nel 1980 dal regime di Assad, il forno, in cui attualmente lavorano una cinquantina di persone, è aperto tutti i giorni.
Raccontaci, cosa ricordi di quel viaggio?
L’impatto al mio arrivo è stato forte. Silenzio, grigio e polvere sono le immagini che mi tornano alla mente più nitidamente. Bisognava essere accompagnati per spostarsi tra le macerie, anche perché c’era il problema delle mine. Ero partita dall’Italia con una delegazione organizzata da Uiki onlus, Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia, ed era il mio primo viaggio in quelle zone. Entrare a Kobane era impossibile, le frontiere erano chiuse, controllate dall’esercito turco.
Anteprima: https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2023/02/INMR-curdi-preview.mp3
Cover: https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2023/02/INMR-Copertina-per-homepage-2023-03-05T221041.192.jpg
Name: I curdi, fra repressione, ribellione e nuovi modelli democratici – Io non mi rassegno+ #6
Autore: Andrea Degl'Innocenti
Permesso: ""
Per ascoltare il podcast completo abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento
Filename: INMR-curdi-preview
Per qualche tempo sono rimasta a Suruç, piccola città turca a una decina di chilometri dal confine siriano, dove il centro culturale Amara era ormai diventato punto di incontro di tutti i giornalisti internazionali. Il centro che purtroppo a luglio di quello stesso anno fu teatro di una strage in cui rimasero uccisi 32 giovani appartenenti alla Socialist Youth Associations Federation (SGDF).
In maniera affatto legale riesco a entrare a Kobane insieme ad altre sei persone, giornalisti e attivisti italiani e stranieri, e mi trovo davanti agli occhi una città completamente silente, palazzi sventrati dalle esplosioni, scheletri di cemento, tutto distrutto e vuoto, anche se la popolazione, proprio in quei giorni di fine marzo, stava iniziando a tornare a casa dai villaggi dove si era rifugiata.
E come sei arrivata a scoprire questo meraviglioso forno?
Una mattina, mentre ero in attesa insieme agli altri del driver e del traduttore per muoverci, sento un forte odore di pane. Chiedo da dove venga e mi dicono che c’è un forno non lontano. Un forno, mi chiedo? Attivo? Ed è proprio seguendo quell’odore che arrivo al grande forno, dove incontro uomini in piena attività, che sorridendo, incuriositi dalla mia presenza, mi accompagnano dentro, tra grandi macchinari accesi e un gran calore, mi indicano le fasi di lavorazione e prestano il loro sguardo, forte e buono, al mio obiettivo.
Tutto quasi senza scambiarci parole: mi ero mossa senza traduttore e loro parlano solo arabo. Ma riusciamo a comprenderci ugualmente, con gli occhi, col sorriso, con la stessa voglia forse di raccontare quella bella storia. Successivamente mi spiegarono che quel forno non aveva mai smesso di lavorare nei quattro mesi di assedio dell’Isis.
In che modo ne hai raccontato la storia?
Ho lasciato parlare i ritratti di quegli uomini, i loro sguardi sono il racconto più sincero che potessi restituire e il modo migliore per descrivere la forza del popolo curdo. Con quel pane hanno nutrito non solo la popolazione, ma anche la resistenza in difesa della terra che amano.
Quando sei entrata nel forno, cosa vi siete detti con gli occhi?
Il popolo curdo è sempre stato costretto a combattere per la propria esistenza, è forse il più grande gruppo etnico senza uno Stato, abituato quindi, a lottare e resistere. Ecco, secondo me è la miglior testimonianza che una comunità in lotta per la libertà può creare legami forti, potenti, in grado ancora di credere in un mondo diverso, in grado di resistere, l’importante è che si resti uniti. Questo mi hanno detto i loro occhi, quel forno doveva continuare a lavorare, per dare forza e nutrimento al popolo curdo, unito.
Ci sei più tornata?
Due anni fa sono partita con una delegazione di attivisti, operatori umanitari, giornalisti, fotografi, tra cui il fumettista Zerocalcare, in un viaggio che mi ha portato a conoscere la realtà della regione di Shengal, nel nord dell’Iraq, al confine con la Siria, dove la popolazione Ezida, come quella curda, da tempo è perseguitata. Ricordiamo infatti l’ultimo massacro del 2014, di cui la città di Shengal porta ancora segni evidenti, riconosciuto come genocidio dalle Nazioni Unite.
Anche questa volta, lasciata la delegazione, ho proseguito il viaggio per tornare in Siria, in Rojava, la regione autonoma del Nord e Nord Est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da governo siriano. Qui si sta attuando un esperimento di autogoverno unico al mondo, ispirato ai principi di democrazia, parità di genere, multiculturalismo, ecologia e inclusione, chiamato confederalismo democratico. Volevo assolutamente tornare a Kobane e soprattutto rientrare in quel forno.
L’emozione è stata grandissima, una grande commozione constatare che non era cambiato nulla se non il numero delle persone che ora vi lavorano. Con una di loro ci siamo anche riconosciuti. E la città fuori bellissima, tutta ricostruita e viva. Avevo legato a quel forno tantissimi ricordi, tornarci è stato come dire apertamente: io ci sono e continuo a raccontare la vostra storia.
E ora, cos’hai fatto dei tuoi scatti?
Ne ho realizzato una mostra itinerante e uno degli scatti è custodito a Roma, nella città in cui vivo e in cui esiste una grande comunità curda. È appeso nella taverna curdo-meticcia Bazar, sulla Casilina, un luogo di socialità e cultura con un occhio attento sul mondo. Come in questo momento, ad esempio, che per l’emergenza del terremoto, ha organizzato una cena take away per raccogliere fondi che attraverso la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia arriveranno alle popolazioni colpite dal terremoto.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento