Abiti Puliti: economia circolare contro il consumismo patologico della fast fashion
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In quindici anni la produzione tessile al livello mondiale è raddoppiata, anche se più della metà degli abiti acquistati viene dismessa dopo poche volte che viene indossata o addirittura non viene neanche usata entro il primo anno di vita. L’indice medio di utilizzo è diminuito del 36% e ogni anno vanno in fumo 460 miliardi di prodotti non usati.
Sono dati che potrebbero nascondere scenari inquietanti. Secondo le previsioni infatti, il consumo globale del settore abbigliamento potrebbe aumentare del 63% entro il 2030. Vuol dire, ad esempio, che saranno prodotte 500 miliardi di magliette in più rispetto a oggi. Il mondo della moda è il quarto emettitore di fattori climalteranti al mondo – è previsto un aumento di emissioni del 60% entro il 2030 – e rappresenta un settore devastante che produce 90 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti, di cui solo l’1% riciclabile.
Si comprano prodotti di scarsa qualità la cui realizzazione genera sfruttamento umano e ambientale. Dati allarmanti e preoccupanti che mostrano quanto sia necessaria maggiore consapevolezza da parte dei consumatori e delle grandi aziende produttrici. Un processo che è già in atto da decenni, ma che solo adesso, forse grazie anche a una maggiore attenzione verso i temi sociali e green, assume maggiore risalto nella sua gravità.
Alla fine degli anni ‘90 un gruppo di attiviste olandesi ha dato vita a Clean Clothes Campaign, una campagna internazionale, oggi diventata una rete globale di oltre 250 organizzazioni, Ong e sindacati, nata per denunciare le condizioni di abuso di violazione che avvenivano e avvengono nell’industria della moda globale e mettere in campo delle azioni di difese delle donne al lavoro e dei diritti umani.
«Le nostre campagne sono sempre internazionali e nascono per intervenire sulle catene globali di fornitura, la modalità con cui è organizzato il settore della la moda nel mondo. Un’industria basata sullo sfruttamento endemico dei diritti umani, con salari bassissimi, spesso poca sicurezza e trasparenza e frequente violenza di genere», commenta Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale per l’Italia della campagna Abiti Puliti.
CAMPAGNA PayYouWorkers
Sono tante le campagne di Abiti Puliti in atto; tra queste PayYouWorkers, che vuole contrastare il furto salariale e l’impoverimento ulteriore che la pandemia ha causato per molti lavoratori, soprattutto donne, a seguito dell’interruzione delle catene di fornitura e del loro riavvio successivo che ha portato alla richiesta da parte di brand internazionali di comprimere ulteriormente i costi di produzioni.
La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell’abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina e per avere garanzie in caso di eventuali future crisi, purtroppo già prevedibili. Grazie alla campagna sono state individuate le principali imprese responsabili e sono stati avviati i primi momenti di confronto, ancora lontani da veri e propri negoziati.
CAMPAGNA GOOD CLOTHES FAIR PAY
Fino a oggi i marchi della moda hanno fatto solo promesse, senza cambiare le proprie pratiche. Servono leggi e obblighi per regolare l’industria tessile e fare rispettare ai marchi le proprie responsabilità legali. Good Clothes Fair Pay è la campagna di Abiti Puliti che chiede una legislazione sui salari dignitosi in tutto il settore dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature. Servono 1 milione di firme di cittadini dell’UE per sollecitare una legislazione che imponga alle aziende di condurre una due diligence sul salario dignitoso nelle loro catene di fornitura. «Quello che noi facciamo nasce da una consapevolezza di fondo: i nostri consumi di abbigliamento sono legati alle condizioni di chi produce, ovvero milioni di persone nel mondo», sottolinea Deborah.
«È necessario usare la solidarietà internazionale per agire come leva di cambiamento. Noi analizziamo i problemi, gli impatti e poi lavoriamo sugli interventi specifici dei “casi urgenti” in cui i lavoratori subiscono ingiustizie, per difenderli concretamente laddove i sindacati sono più fragili. Oggi si parla di fast fashion, vendere prodotti poco costosi è un invito a un consumismo patologico che può attirare nella rete anche le persone meno abbienti. Dobbiamo riflettere su come e quanto produciamo, sulle scelte comunicate dalle imprese non solo sui temi ambientali, ma anche sulla dimensione sociale che spesso è in penombra» continua Deborah.
Secondo Abiti Puliti l’economia circolare dovrebbe sostituire il modello di economia lineare ed estrattivista che non prevede nessuna idea di sostenibilità umana e ambientale. Abiti Puliti si batte per sensibilizzare tutti gli stakeholders e i cittadini sui danni sociali, ambientali, sanitari e psichici che la fast fashion ha sulle persone, e promuovere nuovi comportamenti individuali e stili di vita. Spingere le imprese dal basso verso comportamenti responsabili per nuovi livelli di produzione e consumo.
Attraverso uno stile generalista, diretto, puntuale e coraggioso, Abiti Puliti si rivolge a un pubblico vasto, tendenzialmente giovane, sperimentando anche nuovi linguaggi. Attivismo, politica, arte e moda si coniugano per essere più efficaci nel contribuire a cambiare il sistema. Durante la pandemia è stato realizzato il film Le ali non sono in vendita, un viaggio inedito nel mondo della fast fashion in cui il percorso di riflessione personale di un gruppo di studenti di moda incrocia quello politico affrontando gli impatti sui diritti umani e sull’ambiente attraverso testimonianze dirette e interviste esclusive ad esperte/i e attiviste/i. Un percorso simbolico di emancipazione del mercato dal consumo patologico.
Sulla stessa scia il podcast What The Fashion (WTF) che racconta il fenomeno della fast fashion e le sue ricadute sulla società, sulle lavoratrici e sull’ambiente. Un ulteriore approfondimento per conoscere i lati oscuri della moda e scegliere consapevolmente nuovi percorsi per invertire la rotta. La prossima volta che acquisteremo un capo di abbigliamento chiediamoci cosa e chi stiamo finanziando e in quale direzione sta puntando la nostra scelta. Il cambiamento comincia anche da questi “piccoli” gesti.
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