La storia di PeaceLink, dal giornalismo partecipativo alla prima rete telematica per la pace in Italia – Io Faccio Così #371
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Taranto, Puglia - Alessandro Marescotti è un uomo raro. Difficile immaginarselo insegnante di storia e italiano senza pensare agli oltre trent’anni di attivismo ambientale e pacifista e a quel suo tenace tentativo di diffondere un modello di informazione orizzontale e democratico in un mondo non ancora digitalizzato, eppure non così lontano da noi. Sono solo i primi anni Novanta, quelli in cui ci riporta indietro sul filo della sua voce pacata, tra i pini comuni della Villa Peripato, uno scrigno verde della città di Taranto.
Arriva in bicicletta, zigzagando nel traffico della mattina, in una giornata senza vento in cui i due mari affacciati sul golfo sono solo un riverbero lontano e accecante. Ha diversi impegni nella mattinata e poco più di un’ora da dedicarci, eppure inizia a parlare senza fretta. Racconta degli anni dell’università, poi la laurea in filosofia e della prima cosa fatta dopo gli studi, ancor prima di diventare insegnante: acquistare una calcolatrice Texas TI58CI per imparare a programmare.
«Avevo capito che il mondo dell’informatica avrebbe cambiato completamente la società – ci racconta – e quindi subito dopo essermi laureato ho fatto per un po’ il programmatore». Lo sguardo segue frenetico il passo dei ricordi, si illumina mentre si rivede giovane professore di italiano e storia, con un chiodo fisso per l’informatica: «Quest’idea di avere dentro di me una passione per l’informatica, che è una passione non tanto tecnica quanto civile, non mi ha mai abbandonato».
LA PRIMA GUERRA DEL GOLFO E LA NASCITA DI PEACELINK
Erano quelli gli anni della prima guerra del Golfo, il primo conflitto in cui l’Italia era tornata ad abbracciare le armi a distanza di meno di cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1991 ci fu un gran proliferare di iniziative e movimenti pacifisti. La bacheca antiguerra promossa dalla Rete Nonviolenta di Informazione fu una di quelle: il primo esperimento in Italia di condivisione nato dal basso che in assenza di internet permetteva di raccogliere tutte le iniziative contro la guerra realizzate a livello nazionale.
La bacheca antiguerra, ospitata sulle pagine de Il Manifesto e di Avvenimenti, era un tentativo analogico di condivisione dei movimenti pacifisti. Le redazioni dei due quotidiani ricopiavano costantemente le segnalazioni inviate via lettera o fax: funzionava così e sembrava l’unico modo possibile. Eppure ce ne doveva essere un altro: uno che collegasse migliaia di persone alla stessa velocità di un fax, ma a costi inferiori. Difficile porsi lo stesso quesito oggi con lo smartphone che vibra nella tasca e un personal computer così leggero da poterlo avere sempre in uno zaino.
Marescotti parte da zero, ma con la tenacia di un visionario. Scopre che dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, esiste qualcosa di nuovo, chiamato PeaceNet, la prima rete nata per collegare i gruppi di pacifisti americani sparsi sul continente: «Non potevano salire tutte le volte su un aereo per incontrarsi: avevano dovuto trovare una qualche nuova forma di condivisione di informazioni e documenti», commenta. «La cosa mi sembrò interessante, per cui nel 1991 cercai delle altre persone che in Italia avevano fatto delle esperienze in questo campo».
PeaceLink nasce alla fine di quell’anno, come un esperimento di diffusione di informazioni orizzontale e dal basso. Debutta con il passo audace di qualcosa che precorre i tempi: «Quelli dal ‘91 al ‘93 sono stati gli anni pioneristici – sorride Marescotti –, era persino difficile spiegare alle persone a che servisse questa cosa. Rispondevano che tanto c’era già il fax. Proporlo ai movimenti pacifisti non è stato affatto semplice: all’epoca sembrava inconcepibile anche solo l’idea che un giorno tutti avremmo avuto un personal computer a casa».
UNA LETTERA MAI ARRIVATA
Nessuno sapeva bene cosa fosse una rete telematica e come si creasse, eppure quella di PeaceLink prende forma poco per volta, attraverso le BBS (Bulletin Board System), una parentesi quasi del tutto dimenticata dell’era ante-internet. Le BBS erano una sorta di bacheca virtuale, antenate delle communities online, cui si accedeva tramite un computer, un programma di connessione e un modem da collegare alla presa telefonica di casa. PeaceLink partì proprio utilizzando le BBS e il software gratuito creato negli anni Ottanta da un anarchico americano, Tom Jannings, autore della rete FidoNet, in grado di collegare i computer di tutto il mondo con un notevole abbattimento dei costi.
C’è chi crede – a ragione – che le coincidenze non esistano. Difficile non pensarlo leggendo quella lunga lettera battuta a macchina e mai arrivata, in cui Marescotti spiega ciò che sarebbe diventato di lì a poco PeaceLink. Le sue parole, partite “dal profondo e sfortunato sud”, erano indirizzate a Marinella Correggia, responsabile della Rete nonviolenta di informazione contro la guerra nella redazione de Il Manifesto.
Correggia non riceverà mai quella lettera, eppure già in quelle righe si profilava chiaramente il sogno di “un villaggio globale pacifista”, di una rete telematica con scopi di pace da costruire da zero. Idea sostenuta da una serie ben argomentata di proposte quasi avveniristiche per quegli anni di fax e francobolli. Non sapremo mai cosa sarebbe diventata PeaceLink se quella lettera fosse finita sulla scrivania di Correggia e di un quotidiano nazionale. Ma ciò che è certo, è che di lì a poco sarebbe diventata qualcosa di ancora inesplorato nel panorama nazionale: così nuova da sembrare assurda.
All’inizio infatti quest’idea di condivisione in rete delle informazioni, viene considerata – paradossalmente, diremmo oggi – una forma elitaria, destinata a estinguersi, perché riservata a pochi. «Noi invece abbiamo sempre creduto che fosse un’idea strategica. Di fatto l’esperimento di PeaceLink ci consentì di esplorare tutta la potenza della comunicazione e della condivisione digitale, non solo durante la guerra del Golfo, ma anche durante quella del Kosovo, nel ‘99».
Proprio in quegli anni, PeaceLink si afferma come punto di riferimento nello scenario pacifista nazionale: «Ricordo che ai cortei c’erano attivisti che avevano stampato il nostro dossier sul Kosovo. Allora ci rendiamo conto che c’era un futuro per questa idea di condivisione delle informazioni, di attivismo sociale, di street giornalismo o giornalismo partecipativo». Da quest’esperienza, insieme ad altri attivisti di PeaceLink, nasce anche il libro Telematica per la pace, il primo in cui si esplorano telematica, pace, ecologia, diritti umani e solidarietà.
PIÙ AVANTI DELLA REALTÀ
Siamo a metà degli anni Novanta e fare informazione dal basso sembra incredibilmente possibile. Così alcuni volontari di PeaceLink, grazie alla collaborazione di un missionario, portano a Nairobi alcuni computer con cui realizzare una rete per giornalisti africani. I primi esperimenti sono incredibili: fili che corrono da un albero all’altro e passano attraverso le finestre della redazione.
Ma proprio grazie a quei computer e alla posta elettronica, quei giornalisti avrebbero potuto comunicare con il resto del mondo, senza bisogno di fax. Quando però provarono a mandare i primi messaggi di posta elettronica a La Repubblica, al Corriere della Sera e ad altri grandi giornali, la risposta è spiazzante: ma noi non abbiamo la posta elettronica, si sentono dire.
«Ci rendiamo conto di essere alcuni anni avanti rispetto alla realtà e ci chiediamo: ma forse stiamo sbagliando noi? Il mondo non cambierà mai? E invece il mondo è cambiato, ancora più velocemente di quanto avessimo immaginato. Anzi, il cambiamento è stato impetuoso quanto una valanga. Con i social network le cose sono cambiate a tal punto che oggi ognuno ha un dispositivo portatile come lo smartphone. E il vero problema non è più avvicinare le persone a questi dispositivi, ma staccarle e provare a farle uscire dal virtuale». Il mondo è cambiato con una velocità e una profondità al di là di ogni aspettativa.
UN NUOVO MODO DI FARE INFORMAZIONE
A dieci anni dalla sua nascita, PeaceLink esplode come un fenomeno di rilevanza nazionale. Diversi i dossier di approfondimento diffusi grazie a internet, «che cercavamo sempre di utilizzare in maniera molto profonda e accurata», commenta Marescotti. «Internet consentiva di accedere a dati che persino i grandi quotidiani nazionali faticavano a raggiungere, per non parlare della classe politica, ancora legata a vecchie modalità di fare informazione».
È una scoperta incredibile: «Grazie a internet potevamo entrare nel sito del Pentagono senza violare alcun segreto militare e reperire informazioni semplicemente digitando delle parole-chiave. Questo ci dava più potere, da un punto di vista della conoscenza, persino della classe dirigente», prosegue Marescotti.
Sono anni che corrono rapidi: si organizzano conferenze, si condividono informazioni esclusive sul transito dei sottomarini nucleari, sull’uranio impoverito. L’improvvisa profusione di informazioni genera smottamenti nell’opinione pubblica: «Veniamo contattati dai genitori di militari impegnati in zone dove era stata accertata la presenza di proiettili di uranio impoverito, sono anni molto intensi». Grazie alla rete, questi dati raggiungono tutti e con estrema facilità.
ALLA FINE QUALCUNO CI DISSE: PERCHÉ NON VI OCCUPATE DI TARANTO?
E poi, agli inizi del 2000, nel corso di una conferenza a Taranto sull’uranio impoverito, accade qualcosa che cambia per sempre la storia di PeaceLink. Un uomo si alza dal pubblico e chiede: «Ma perché non vi occupate di Taranto?». Marescotti ricorda chiaramente quel giorno. Niente sarebbe più stato come prima. Ricorda di aver pensato per un momento che si trattasse di un provocatore. Non sapeva chi fosse, forse un operaio dell’acciaieria.
A distanza di anni, quelle parole continuano a risuonargli dentro. «Nei suoi occhi c’era quasi una richiesta di aiuto: ma perché non vi occupate di Taranto? A Taranto c’è l’ILVA. Ma sapete cos’è l’ILVA?», ricorda commosso Marescotti. Da quel giorno PeaceLink non sarebbe più stata la stessa cosa. L’acciaieria con i suoi camini sarebbe diventata meno invisibile nella coscienza e nell’immaginario prima di tutto degli stessi abitanti di Taranto. Da quel momento l’ILVA smise di esistere quale luogo di omertà e silenzio, come era stata per anni e anni. Fino a quel giorno e alle parole di quello sconosciuto.
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