Io sono una mucca. Ecco la vita (e la sofferenza) degli allevamenti d’alpeggio
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Bolzano, Trentino Alto Adige - Sono cresciuta in un piccolo paese piemontese pedemontano, circondato da una natura predominante seppur antropizzata. La neve in inverno era frequente anche a bassa quota, mentre la vista di vette innevate era costante per l’intero periodo invernale. Quella vista mi manca: manca la neve, le alte montagne e i momenti in cima alle piste da sci, nei giorni feriali, in cui mi godevo il silenzio della quasi-solitudine.
Qualche settimane fa io e la mia famiglia decidiamo di fare una vacanza di qualche giorno in Trentino, in un rifugio situato lungo l’Alta Via delle Dolomiti: in questo clima che ricorda casa, circondato da tanta meraviglia, scopriamo appena arrivati che a pochi passi da noi c’è un allevamento di mucche da latte. Sensibile al tema degli animali, decido di andare a dare un’occhiata da vicino. Sono curiosa e la mente mi inizia a proporre immagini di Heidi con i suoi amici animali che saltellano felici. Ci presentiamo così fuori dalla stalla in legno all’appuntamento prefissato. Insieme a noi altre due famiglie con figli.
Varcando la porta, anch’essa in legno, davanti a noi si apre un grande spazio diviso in due da un corridoio centrale. A un primo sguardo sull’intera stalla tutto mi appare secondo le aspettative che mi ero creata, ma qualcosa non va. Tutto giusto e al tempo stesso tutto sbagliato. Ma cosa? La risposta arriva dopo pochi secondi, non appena i miei occhi si soffermano sulla prima mucca alla mia sinistra: lo sguardo è assente e sofferente.
Eppure lo spazio della stalla è ampio, il fieno a disposizione davanti ai bovini è abbondante e tutto appare pulito e in ordine. Decido di avvicinarmi al corridoio per vedere da vicino questi grandi animali in attesa della nostra visita. E subito mi blocco: un peso giunge improvvisamente sul cuore e mi lascia dolorante e impietrita. Il loro collo è circondato da un grande collare in metallo, collegato a sua volta alla staccionata in legno davanti da una catena lunga poco più di una ventina di centimetri.
La catena permette loro solo due posizioni: o in piedi con la testa rivolta verso il corridoio, per rendersi visibili, o sdraiate con la testa rivolta verso l’alto. Entrambe posizioni evidentemente non naturali per loro. Anche la parte finale della coda è legata da un filo che la tiene in alto, unita a sua volta attraverso le travi del soffitto alle altre code. Al loro fianco dopo pochi attimi compare un piccolo contenitore in metallo con all’interno dell’acqua. Cerco di riprendere il controllo di me stessa: mi dico che sono troppo emotiva. Ci sono bambini, altri adulti e soprattutto mia figlia di fianco a me.
Il peso al petto però non si decide a diminuire. Sento la sofferenza di questi animali: non è un dubbio, ma una certezza. La percepisco, gliela leggo per intero nei loro occhi. Stanno chiedendo aiuto. La sofferenza che sto assorbendo arriva fino alla gola e inizia a bussare. Faccio appello alla mia razionalità: c’è sempre una spiegazione a tutto e ci dev’essere anche questa volta. “Sarà una questione momentanea e legata alla nostra presenza”, mi dico.
E così, dopo aver fatto ampi respiri, mi avvicino a un ragazzo sulla trentina che sta pulendo queste bovine per rivolgergli qualche domanda: scopro che è il figlio del titolare e che si occupa da sempre di questa attività. Appare gentile e senza malizia. Risponde alle mie domande senza esitazioni e con una trasparenza disarmante.
Scopro che questi animali vivono sì in alpeggio in alta montagna in semi libertà, ma solo nel periodo estivo, mentre il resto dell’anno – otto mesi circa – lo passano esattamente come li vedo io ora. Nella stessa posizione e sempre così: legate e immobili. Non un giorno di pausa, di libertà, non una passeggiata, non un qualsiasi momento diverso. Il motivo è funzionale agli umani: se permettessero agli animali di muoversi per l‘intera stalla, questa sarebbe molto più difficile da ripulire dagli escrementi. La coda è anch’essa immobilizzata per lo stesso motivo.
Mentre il ragazzo mi racconta tutto ciò, con gesto fluido e sicuro, fa calare un macchinario composto da più tubi e pompette e lo posiziona sotto la mucca che ha di fianco, continuando a parlare. Le singole pompe meccaniche iniziano così a succhiare il latte dai grandi capezzoli sporgenti. Inizia a girarmi la testa e a sentire un dolore pungente ai miei, di capezzoli. Il mio corpo è sempre più sofferente e gli occhi si fanno lucidi. “Sono troppo emotiva”, mi ripeto.
La mia mente torna ad ascoltare ciò che mi stanno dicendo: «Sono mucche da latte, devono essere produttive, altrimenti non riusciremmo a produrre abbastanza formaggio da vendere». E così dicendo con orgoglio mi inizia a elencare dei numeri appresi a memoria: litri prelevati dalla singola mucca al giorno, totali della mandria, formaggi in chilogrammi venduti all’anno.
Diffido di chi parla di numeri, riferendosi a esseri viventi. Ma cerco di rimanere in ascolto e sento nominare il numero di vitelli presenti nella stalla in quel momento: nove. La sofferenza si mette in pausa e decido di andarli a vedere, con la speranza che almeno loro conducano una vita piacevole.
I recinti sono due: in uno otto vitelli di circa un mese scalpitano cercando di uscire spingendosi l’un con l’altro per raggiungere l’aperttura della staccionata, senza speranza. Sorrido, sono buffi. Li accarezzo tutti. Dietro di loro un recinto più piccolo con un solo vitello: mi viene spiegato che è appena nato, ha qualche giorno di vita. È solo, emette dei versi strazianti che richiamano un pianto soffocato.
E così scopro che i vitelli vengono separati fin dal momento della nascita dalla madre, «altrimenti il rischio che si affezionano è troppo alto e renderebbe le cose più difficili». Ma non solo: da circa vent’anni le nascite vengono programmate tramite l’inseminazione artificiale che permette di far nascere con quasi certezza solo femmine, per evitare costi e problemi di gestire eventuali vitelli maschi. Le corna, indispensabili per l’orientamento e la gestione della temperatura corporea delle mucche, vengono tagliate a pochi mesi di vita «per evitare che i bambini si spaventino e che gli animali facciano danni».
Mi sembra di essere saltata dentro a un incubo e di non essermene accorta. Come è possibile? Come è possibile che ciò avvenga, che sia permesso? Come è possibile che io abbia mangiato formaggio in questi anni, senza sapere tutto ciò? E soprattutto come è possibile che le persone accanto a me sembrano trovare tutto ciò “normale” motivo di attrazione per adulti, ma soprattutto per i bambini? Non vedono anche loro ciò che vedo io?
E così mi viene il dubbio che forse in fondo, ci siamo disabituati a riconoscere la sofferenza intorno a noi. Alla mia mente tornano flash, uno dopo l’altro, di attimi in cui sono stata spettatrice di malessere e sofferenza altrui: da persone senza dimora che chiedono cibo, a bambini che fanno l’elemosina fuori da luoghi di culto senza ricevere uno sguardo di attenzione, animali casalinghi piegati a capricci e frivolezze di umani troppo superficiali e infelici, immagini di sofferenza e guerra viste alla televisione.
Le convinzioni legate agli allevamenti d’alpeggio nella mia mente si disintegrano, lasciando spazio ad una domanda: cosa fare? L’incubo è finito, la visita conclusa, ma ne sono uscita con una promessa verso me stessa: se allenarsi alla felicità è complesso, credo che lo sia ancor di più allenarsi all’infelicità. Chissà quante specie, animali, umani accanto a me soffrono, senza che ne sia consapevole, senza ricevere un abbraccio, uno sguardo di amore. Lascio latti e formaggi al negozio, ma mi porto a casa qualcosa di più grande: la consapevolezza – e la responsabilità che ne consegue – che la sofferenza degli altri è anche un po’ la mia.
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