25 Gen 2023

Kukì e il canto del fiume

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
Illustrazioni di: Siriana Tanfoglio

Cosa accadrebbe se un bel giorno le acque di un fiume che dissetano gli abitanti e rendono fertili i terreni si prosciugassero sempre più? Da chi cercare risposte e possibili soluzioni? Un bambino che abita in un villaggio molto, ma molto lontano ha trovato le risposte.

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Name: Kukì e il canto del fiume
Autore: Andrea Degl'Innocenti
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La favola che sto per raccontarti arriva da molto lontano. Quanto? Prendi l’oggetto più lungo che trovi, come un manico di scopa, un bastone, una canna, poi appoggialo ai tuoi piedi e misura quanto lontano arriva. Ecco, molto più lontano di così. In altre parole, lontanissimo.

In questo luogo lontanissimo c’era un villaggio circondato da felci, palme e piante di ogni genere e grandezza, tutte verdi ma ognuna di un verde un po’ diverso. E infatti gli abitanti di quel villaggio, che ai tempi si chiamava Mapasci, avevano cento parole diverse per indicare il verde. C’era il verde delle foglie appena spuntate della palma, quello del muschio appassito, quello dei sassi scivolosi sul fondo del torrente e altre novantasette.

La vita degli abitanti di Mapasci scorreva tranquilla e felice o forse questo è quello che ricordano adesso, perché tutti tendiamo a pensare che prima le cose andavano meglio. La verità è che la vita trascorreva normale: certi giorni alcuni erano felici e altri tristi, poi quando i primi s’intristivano erano i secondi a essere felici, poi c’erano le volte in cui erano tutti felici e quelle terribili in cui erano tutti tristi. C’era anche chi, per carattere, era più spesso felice e chi tendeva a essere più facilmente triste.

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Nel bel mezzo del villaggio scorreva un fiume verde e blu in cui guizzavano grossi pesci dai dorsi lucenti. Le sue acque dissetavano gli abitanti e rendevano fertili i terreni. Un giorno però il livello del fiume iniziò a scendere finché i sassi tondi che stavano sul fondo furono per metà scoperti. E lì si fermò. Rimase così per giorni e giorni e gli abitanti di Mapasci erano molto preoccupati.

Bakuri, un signore con pochi denti, era il più preoccupato di tutti perché – diceva – le sue zucche non sarebbero cresciute belle e floride come l’anno precedente. Sachabe, la campionessa di Banqo (lo sport che ai tempi era il più praticato nella zona) si lamentava che senz’acqua era difficile levigare le pietre che le servivano per le esibizioni. E così tanti altri e altre. Alla fine andarono da Cariba, che del villaggio era considerata la più saggia, per chiederle di risolvere il problema.
Cariba disse: «Chiederemo a Kukì di scoprire cosa è successo».
Kukì era un bambino alto poco più di una felce. Aveva gli occhi verdi “germoglio di banano”, cosa che si pensava portasse fortuna, per cui ogni volta che c’era da fare qualcosa in cui la fortuna era importante tutti pensavano a lui.

Kukì si mise subito in viaggio. Avvolse un po’ di frutta secca in una foglia e iniziò a camminare al lato del fiume, nella direzione contraria a quella in cui scorreva l’acqua. Camminò per un giorno e il giorno successivo, quando il sole era già alto, vide in lontananza un altro villaggio. Gli abitanti di questo villaggio vivevano in cima a degli altissimi alberi dai tronchi di mille colori. Sulla sommità di questi alberi c’erano delle piattaforme sottili, collegate fra loro da dei ponticelli che oscillavano al vento. Erano magri come fuscelli e agili come volpi del deserto.

Kukì si arrampicò su uno dei tanti tronchi e mentre saliva incontrò colori che non aveva mai visto, a cui non sapeva neppure dare un nome. Per cui se li inventò.
«Questo si chiamerà verdalba, questo dev’essere il marranallo! Questo invece lo chiamerò saracchio. E questo, che è il più bello, barlona».

Arrivato in cima, incontrò una donna magra e alta, con un vestito colorato tanto quanto l’albero.
«Che bei colori che ha questo villaggio! Come si chiama?»
«Si chiama Eco Barlona».
«Come mai?»
«Eco per il rumore che arrivava dal fiume, Barlona come il colore più bello di tutti» disse indicando un colore sgargiante sul proprio vestito.
«Certo» disse Kukì.

Poi la donna si fece cupa: «Da qualche giorno l’acqua del ruscello non canta più come prima, dalle nostre fontane esce solo la metà dell’acqua che usciva e le pietre tonde sul fondo del fiume sono coperte a malapena».
«Sì, è il motivo per cui sono venuto. Da noi l’acqua è diminuita ancora di più, le nostre pietre sono ricoperte solo per metà. Sapete il motivo?» chiese Kukì.
«No, nessuno lo sa, ma visto che sembri un bambino sveglio e coraggioso manderemo qualcuno per aiutarti a scoprirlo».

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Dopo aver mangiato pane di segale e frutta secca assieme agli abitanti del villaggio, Kukì ripartì assieme a Gapi, una bambina dal sorriso bianco come una conchiglia. I due camminarono per un giorno intero e verso sera arrivarono in una radura in cui il fiume sembrava scomparire all’interno di una collina. Il cielo iniziava a farsi scuro come gli occhi di un gufo, perciò Gapi disse:
«Forse è l’ora di trovare un riparo per la notte».
«Va bene» rispose Kukì.

Trovarono una grotta ricoperta di muschio soffice, si sdraiarono e in breve tempo si addormentarono. Al mattino furono svegliati da un rumore fastidioso nelle orecchie. Aprirono gli occhi e con lo sguardo ancora appannato videro una figura bassa e tozza come una palma nana davanti a loro, intenta a battere con un bastone per terra.
«Siete in mezzo al passaggio» disse loro.

I due si voltarono e videro una lunga fila di persone, tutte basse e tozze come palme nane, incolonnate alle loro spalle. Si alzarono e si fecero da parte in fretta, mentre la fila iniziava a scorrere al loro fianco.
«Dove vanno tutti?»
«A raccogliere la luce», rispose il signore che li aveva svegliati
«E come fanno?»
«Prendono le gocce della rugiada mattutina in cui è rimasta intrappolata la luce dell’alba e la portano nel nostro villaggio, che da un po’ di giorni è rimasto al buio. Seguitemi».

Il signore, che si chiamava Apàl, li condusse in fondo alla grotta, che invece di finire in un vicolo cieco come tutte le grotte che i due bambini avevano visto fino ad allora, proseguiva dopo una strozzatura in un lungo budello che poi tornava ad allargarsi. Nella penombra, video aprirsi davanti ai loro occhi un villaggio scavato nella roccia, liscio e levigato come le nuvole al tramonto.

«Perché c’è così poca luce?» chiese Gapi
«Perché era il ruscello a portarcela: ne prendeva in prestito un po’ al sole per portarla dentro la collina e illuminare il nostro villaggio. Ma adesso l’acqua del ruscello è poca, supera di sole quattro dita le pietre sul fondo, e con essa è diminuita anche la luce».
«Anche noi abbiamo lo stesso problema nei nostri due villaggi e stiamo viaggiando per scoprirne il motivo. Voi lo sapete?» chiesero quasi in coro i due bambini.
«No, ma vogliamo scoprirlo. Perciò chiederemo all’abitante più saggio del villaggio di venire con voi».

Apàl condusse Kukì e Gapi in un anfratto dove riposava una grossa talpa.
«Lei è Luta – disse – ed è l’abitante più saggio del villaggio».
Poi iniziò a spiegare la situazione a Luta e anche Luta parlò a lungo.
«Siete d’accordo?» chiese infine Apàl rivolgendosi al bambino e alla bambina.
Gapi e Kukì si guardarono perplessi negli occhi.
«Non lo sappiamo, perché non parliamo il linguaggio delle talpe».
Apàl spiegò allora che Luta sarebbe stata felice di viaggiare con loro, a patto che durante le ore più luminose potesse riposare con una foglia di banano sugli occhi, perché il sole troppo forte le dava fastidio.
«Va bene – disse Kukì – ma avremo bisogno di un interprete».

Poche ore dopo, Kukì e Gapi ripresero il cammino assieme a Luta e Anita, una bambina dai capelli ricci e lucenti come un bosco di mangrovie. I quattro camminarono per due giorni interi, fermandosi solo di notte e nelle ore più calde e assolate per far riposare Luta. A metà del secondo giorno il sentiero che costeggiava il torrente iniziò a salire lungo le pendici di una collina, che ben presto si fece montagna.
Il letto del fiume intanto si faceva più stretto e le sue acque più impetuose. Finché arrivarono alla sorgente, in cima al monte. Qui videro una grossa pietra che impediva a parte dell’acqua di fluire a valle.
«Ecco perché non arriva l’acqua, c’è una pietra che la blocca» esclamò Gapi.

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Intanto il torrente gorgogliava accanto a loro.
«Chissà cosa dice» mormorò Kukì.
Luta disse qualcosa e Anita tradusse: «Luta dice che sa parlare la lingua dei fiumi».
Luta iniziò a gorgogliare. Parlò a lungo con l’acqua del fiume, poi parlò nel linguaggio delle talpe ad Anita, che infine tradusse nel linguaggio degli umani: «Il fiume ha detto che giorni fa un fulmine ha spaccato il grande masso e una parte di esso è rotolato proprio sulla sorgente».
«Ohhh» fecero i tre.
«Il fiume all’inizio era triste, ma poi le sue acque hanno scavato un nuovo solco che adesso scorre di là dal crinale, sull’altro versante, irriga un’altra valle e la rende fertile».

In effetti attorno al piccolo ruscello che scorreva giù dal monte iniziavano a vedersi chiazze di vegetazione più verde e rigogliosa che nel resto della valle.
«Il nuovo fiume sta portando nuova vita e un giorno sorgeranno nuovi alberi, palme, felci e villaggi anche di qua» concluse Luta.Kukì, Gapi e Anita si guardarono negli occhi e si sentirono subito più felici. Ringraziarono il fiume e s’incamminarono indietro verso i loro villaggi lasciando tutto come stava. Kukì arrivò per ultimo, dopo quattro giorni di cammino, essendo il suo villaggio, Mapasci, il più lontano.

Al suo ritorno Cariba convocò un grande cerchio e chiese a Kukì di raccontare per filo e per segno quello che era successo. Tutte e tutti ascoltarono in silenzio. Alla fine, Bakuri, il signore con pochi denti preoccupato per le sue zucche, prese parola e trattenendo a stento la rabbia disse: «Hai fatto tutto questo viaggio per niente, alla fine è tutto come prima!»
Kukì lo guardò perplesso: «Non è vero, sono cambiate tante cose. Adesso abbiamo degli amici che prima non avevamo, conosciamo il volere del fiume e sappiamo il motivo per cui abbiamo meno acqua».

Cariba disse che era vero e indisse dei grandi celebrazioni. Ci furono feste, balli e risate e per tre giorni tutti, ma proprio tutti, furono felici, o quasi. Gli abitanti di Mapasci si abituarono in fretta a vivere con meno acqua: le zucche di Bakurì vennero un po’ meno grandi, ma sfamavano lo stesso; le pietre di Sachabe furono un po’ meno levigate, ma gli appassionati di Bango nemmeno se ne accorsero e chi se ne accorse se ne dimenticò ben presto. In breve tutte e tutti tornarono a essere felici e tristi nelle stesse proporzioni di sempre.

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