17 Gen 2023

Perché nell’era dei social facciamo così fatica a raccontare chi siamo?

Scritto da: Filò

Nell'epoca dei social sentiamo la necessità di far sapere costantemente a tutti cosa facciamo, troviamo spesso difficoltà a raccontare chi siamo, parlare di noi senza filtri né schermi a mediare. Carola Truffelli di Filò riflette su questa anomalia basandosi anche sulla sua esperienza con una classe di bambini dove ha tenuto un laboratorio di filosofia.

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Come spesso ci piace ripetere, in un dialogo filosofico l’indagine che si mette in atto non è puramente razionale. La mente umana si intreccia sempre con il corpo e il cuore: le nostre idee non aleggiano in un cielo iperuranico, ma si intersecano con la nostra storia, le nostre emozioni, il nostro vissuto personale. Hanno, insomma, un portato emotivo. 

Oggi mi piacerebbe analizzare un aspetto di questo strano connubio che tante volte mi è capitato di osservare nei dialoghi che ho condotto. Vorrei farlo a partire da uno dei laboratori che più spesso propongo a persone di tutte le età: il laboratorio sull’esplorazione della propria identità. Il famoso motto socratico “conosci te stesso” fa da sfondo a una serie di attività artistiche o dialogiche che abbiamo elaborato per rispondere alla domanda: “Chi sono io?“. 

La cosa più interessante è che, mentre i bambini si tuffano nel compito con entusiasmo, le persone più adulte hanno una certa resistenza al tema. Alcuni mi dicono che conoscersi è complicato perché cambiamo continuamente, altri rifiutano la domanda dicendo che è inutile oppure che mette troppo in crisi.

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Eppure lavoro spesso con adulti che, come la maggior parte di noi, partecipano al mondo dei social e condividono quindi aspetti delle loro vite. Mi chiedo come si possano conciliare posizioni così diverse: siamo sempre impegnati a condividere cosa facciamo, ma se ci chiedono di condividere chi siamo ci arrocchiamo in una strana difesa dell’interiorità. Mi sembra che lo stacco qui sia la profondità della domanda, così “chi sei?” suona più pesante rispetto a “cosa stai facendo in questo momento?”.

Eppure chi siamo è proprio il mosaico di tutto ciò che facciamo esternamente e ovviamente internamente. Forse allargare lo sguardo e vedere il quadro completo ci spaventa perché ci sembra sempre meno lucente della singola tessera. In effetti porci domande sulla nostra identità può distruggere la coerenza dell’immagine che abbiamo creato di noi stessi, può far emergere le nostre paure rispetto al futuro o le nostre frustrazioni legate al presente. Tutti questi aspetti, nel caso degli adulti, inibiscono la comunicazione perché possono bloccare la stessa indagine interiore. 

Nel frattempo lavora però anche un secondo aspetto: esporre la propria identità può fare paura. Come mai l’altro è così spaventoso da farci chiudere in noi stessi? Penso che la risposta me l’abbiano suggerita i bimbi nell’ultimo laboratorio in classe. Il tema in quel caso era l’esistenza e le qualità di Dio. Ognuno di loro aveva compilato la carta di identità di Dio e alla fine abbiamo condiviso le intuizioni, i disegni, i superpoteri delle loro divinità.

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La classe era una seconda elementare composta da bimbi molto vivaci, che hanno fatto davvero fatica a stare all’interno di un dialogo. In quel momento in particolare a ogni nuova condivisione scattavano risate e giochi. Arriva il turno di B. che mi chiede se può non condividere. Io ovviamente rispetto la sua volontà e noto che B. e l’amica seduta vicino iniziano a bisbigliare mentre il giro di condivisione continua. A un certo punto è l’amica che alza la mano e dice: “B. non se la sente di condividere perché tutti continuano a ridere e si sente che la prendono in giro”

Sono forse ricordi antichi simili a questo che lavorano anche negli adulti che si rifiutano di disegnare il loro autoritratto o che mi dicono che loro non si fanno queste domande, che certe domande non vanno fatte. A partire da esperienze simili cresciamo pensando che gli altri ci faranno del male, rideranno di noi se esponiamo aspetti delicati della nostra interiorità.

Immaginiamo che gli altri siano completamente diversi da noi, che a “loro” non accadano le cose che accadono nella nostra testa e iniziamo a vergognarci. Quante volte ho sentito la frase: “Maestra mi vergogno, lo puoi leggere tu?”. Che valore si può riconoscere quindi nella condivisione di alcuni aspetti della nostra interiorità, che valore c’è nello spogliarsi davanti agli altri?

Siamo sempre impegnati a condividere cosa facciamo, ma se ci chiedono di condividere chi siamo ci arrocchiamo in una strana difesa dell’interiorità

La storia di B. ci aiuta di nuovo. Dopo l’intervento dell’amica, inizia un confronto tra i bimbi che confermano quanto vissuto da B.: anche per loro è stato difficile condividere in quell’atmosfera, riconoscono che esporsi può essere complicato soprattutto se si è timidi, dicono che non hanno riso per prendersi in giro, ma che non riuscivano a fare altrimenti, a trattenersi. Dicono che nessuna idea è stupida. Promettono a B. che non rideranno, che può stare tranquilla. B. legge infine il suo contributo e tutti la applaudono per il coraggio.

Io non sono mai intervenuta in questo scambio: hanno empatizzato da soli con B. Hanno condiviso da soli le loro difficoltà e B. ha scoperto che gli altri sono più simili a noi di quello che pensava all’inizio. Penso che creare occasioni durante la crescita in cui sia possibile questa scoperta ci aiuti da adulti a spogliarci con orgoglio nella consapevolezza che nudi siamo tutti piuttosto simili. 

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