Come fare educazione in natura in una società antropocentrica? Ne parliamo con Stefania Donzelli
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Prosegue la nostra chiacchierata con Stefania Donzelli, ricercatrice del progetto Pedagogia del Bosco, che attraverso la ricerca scientifica vuole ampliare conoscenze e favorire esperienze su questo tema. Se nella prima parte dell’intervista Stefania ci ha presentato il gruppo di ricerca e le attività in cui è impegnato, adesso spostiamo l’attenzione sulla filosofia e sui principi che stanno alla base del lavoro di Pedagogia nel Bosco.
«Ci sono tante ragioni per cui mi sono ritrovata in questo approccio», spiega Stefania. «Se dovessi sceglierne uno, ti direi che apprezzo molto la visione dell’apprendimento come ricerca che si basa sul riconoscimento di un desiderio innato deə bambinə di esplorare, far esperienza e conoscere. Questo desiderio va ovviamente sostenuto e coltivato ed è necessario che bambine e bambini possano interagire con ambienti ricchi di possibilità e con adulti capaci di riconoscerne i bisogni e sostenerne gli interessi».
Uno dei focus del lavoro tuo e del gruppo di ricerca è la neurodiversità. Come mai?
Nei progetti di pedagogia del bosco è diventata visibile la partecipazione di un numero crescente di bambinə neurodivergentə e, in parallelo, è emersa la necessità, da parte delle famiglie e degli accompagnatori del bosco, di dotarsi di strumenti per riconoscere, comprendere e rispondere ai loro bisogni nei contesti all’aperto.
Ti specifico che parlando di bambinə neurodivergentə mi riferisco, in particolare, a bambinə che hanno uno sviluppo atipico: autisticə, adhd, disprassicə, eccetera. Sicuramente nell’intervista ci sarà modo di approfondire l’uso di questo termine, ma intanto mi premeva risultare comprensibile. Aggiungo che io stessa sono una persona neurodivergente, riconosciuta in età adulta.
Che ruolo ha secondo te la natura nella vita in generale e nello sviluppo del bambin*?
Nella società attuale, bambine e bambini hanno un accesso limitato alla natura e il loro tempo è strutturato principalmente attorno alle necessità organizzative degli adulti. La ricerca ha mostrato che queste tendenze hanno effetti negativi sul benessere, sulle possibilità di autodeterminazione e sulla coscienza ecologica delle nuove generazioni. Da qui l’importanza di promuovere il gioco spontaneo all’aperto, in ambienti selvatici o comunque poco antropizzati. I benefici identificati sono di vario tipo: senso-motori, emotivi, sociali, cognitivi ed ecologici.
Queste tendenze poi riguardano anche bambinə neurodivergentə e disabilə, che devono affrontare ulteriori barriere nell’accesso al gioco spontaneo in natura: per esempio, i loro tempi di gioco sono ulteriormente ridotti dall’impegno delle terapie e frequentemente si confrontano con atteggiamenti iper-protettivi, se non addirittura paternalisti.
Sebbene la ricerca sui processi di inclusione in outdoor sia in una fase iniziale – in Italia, ma anche all’estero – vi è un generale consenso sul fatto che il carattere estremamente vario e diversificato degli ambienti naturali, insieme a una progettazione aperta, flessibile e attenta ai bisogni e agli interessi dei singoli favoriscano processi di partecipazione, senso di appartenenza e la costruzione di equilibri complessi fra i bisogni di ciascunə.
Parli spesso, ma molto raramente in questo contesto, di problemi di apprendimento, spettro di autismo, sindrome di Asperger: cosa si sa sui benefici che il contatto prolungato con la natura ha su persone con queste e altre difficoltà?
Grazie per questa domanda che apre a un tema molto importante. Mi hai parlato di problemi e difficoltà ed è assolutamente comprensibile perché l’autismo, l’adhd e altre condizioni del neurosviluppo sono, nell’immaginario corrente, associate a disturbi e deficit individuali. Tuttavia, le cose possono essere viste anche in modo diverso. Invece di classificare la varietà di menti e corpi umani rispetto a un ideale statistico di normalità, che porta a concepire come deficitario chi si allontana da questo ideale, possiamo riconoscere che le differenze umane sono un dato di fatto da accogliere piuttosto che da problematizzare.
Questa è la proposta del cosiddetto paradigma della neurodiversità che – richiamandosi all’idea di biodiversità – sottolinea come la variabilità umana sia un elemento al servizio della vita. In quest’ottica, essere autistica non è un disturbo o un problema, ma semplicemente un modo possibile di percepire e stare nel mondo. Non si tratta di negare le difficoltà, ma di rivedere il processo di attribuzione di causa. Le fatiche che spesso affrontano le persone autistiche dipendono dal modo in cui l’individuo interagisce con l’ambiente, un ambiente che tendenzialmente è organizzato per rispondere a bisogni sensoriali, comunicativi, sociali di una persona neurotipica. Da qui la necessità di intervenire primariamente sul contesto.
Come dicevamo prima, una progettazione basata sull’osservazione, aperta e flessibile, permette di modificare i contesti per rispondere a bisogni inaspettati – intervenendo sull’ambiente –, i materiali e le relazioni. Questo è estremamente significativo perché permette a bambinə neurodivergentə di fare esperienza del fatto che cambiamenti nel contesto possono contribuire al loro benessere, allontanando l’idea che le difficoltà siano invece connaturate al loro essere.
E i benefici?
Certamente le possibilità di movimento praticamente infinite, insieme alla varietà e armonia di stimoli sensoriali presenti nei contesti selvatici, contribuiscono al benessere deə bambinə neurodivergentə. La presenza di diverse regole sociali – più ampie e meno stringenti – permette maggiore libertà nell’espressione di sé. Inoltre lo spazio è grande e ognuno può trovare il proprio posto.
Le ricerche su questo tema sono ancora poche, ma vorrei citare due contributi preziosissimi. Il primo è il manuale di Michael James, Autism and Forest School, che verrà presto pubblicato in italiano in un’edizione aggiornata. In questo testo, James parla diffusamente dei benefici delle Forest School e dà particolare risalto a come l’attenzione per gli interessi dei discenti nella pedagogia del bosco sia un elemento chiave per il benessere dei bambinə autisticə.
Il secondo contributo che vorrei ricordare è lo studio di Samantha Friedman e colleghi, pubblicato a settembre, che rappresenta una delle prime ricerche sul benessere deə bambinə autisticə nei contesti di Forest School. I risultati dello studio hanno indicato che l’esperienza della Forest School produce benefici importanti, offrendo opportunità per giocare, esercitare
Quali consigli daresti a genitori e insegnanti alle prime armi, che stanno scoprendo ora la preziosità del contatto con la natura per i loro piccoli?
Credo che la cosa più importante sia mettere in conto che il rapporto con il selvatico possa essere un rapporto sfaccettato, a tratti anche complicato, ma certamente significativo. Per spiegare meglio cosa intendo, faccio una premessa sull’uso dei termini. Abbiamo parlato tanto di natura in questa intervista, ma cos’è la natura? Natura è tutto, anche noi siamo natura e pure la nostra cultura può essere compresa come un’espressione della natura umana. Tutto il pensiero occidentale è fondato su una separazione dell’umano dalla natura, natura da dominare e sfruttare e natura da salvare e proteggere. Che cos’è allora questa educazione in natura?
Come gruppo Pedagogia del Bosco | Ricerca e Formazione più che di natura preferiamo parlare di immersione nel selvatico per indicare un’esperienza incarnata, fatta anche con il corpo, in spazi ricchi di biodiversità, in spazi “più che umani”, dove ə bambinə possono fare esperienza diretta delle inter-dipendenze fra esseri umani, altre forme viventi e cicli naturali.
Queste esperienze sono necessariamente complesse, contengono certamente elementi di meraviglia, bellezza e piacere, ma non possiamo ridurre lo stare fuori a questo. Quando stiamo all’aperto facciamo anche esperienze faticose e incontriamo difficoltà. Tenere conto di tutte queste sfaccettature possibili dell’esperienza mi sembra un buon punto di partenza per non rischiare di avere dell’educazione in natura una visione idealizzata che, alla lunga, porterebbe a chiudersi piuttosto che a mantenere un atteggiamento aperto e curioso.
Ora faccio questa confessione: io amo la città e per me andare in un bosco è esattamente come andare in città. Significa immergermi in un luogo dove accadono cose continuamente, dove si può sempre fare un incontro interessante, dove è possibile entrare in contatto con una nuova prospettiva. Il mio suggerimento è quello di sostenere tutti i percorsi di costruzione di significato deə bambinə nel selvatico, anche e soprattutto i racconti degli aspetti più complicati di questi ambienti.
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