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Savona - «L’essere umano si sposta da quando la Terra è stata creata. Nessuno nascerebbe per fermare questo movimento». Potrebbe essere un‘epigrafe o l’incipit di una lezione di antropologia. Ibrahim ha atteso prima di parlare, mi ha dato respiro. La sua voce è ferma e trasparente. Spesso penso al timbro vocale delle persone come a una linea che diramandosi nello spazio acquista profondità.
Mentre si racconta, vedo una scultura intagliata nel legno, che accoglie i nodi e le note di chiaroscuro della materia viva. La scultura si muove intorno a noi, prende forma in una nuova geografia, un pezzo di terra che comprende l’Europa e l’Africa subsahariana, ma senza linee divisive. Non riconosco i consueti confini e il mio bagaglio di lettura mostra tutti i suoi limiti.
Niente filtri oggi: solo un bar che sta per chiudere, il primo freddo e la voglia di ascoltare. Il nostro tramite, amica comune, è Alessandra Munerol, attrice di teatro e sceneggiatrice, che insieme a Ibrahim ha scritto un libro: «È la storia di un viaggio – dice lei mentre mi regala una copia de Il Re della Savana (La Rambla, 2022) – ma anche del prima e del dopo, una parabola aperta sul futuro comune». La storia di Ibrahim Galdima. Grazie a quelle pagine mi pare già di conoscerlo, forse l’ho incontrato sulla strade rosse del Ghana…
Allora era un bambino del Nord del Camerun. Era il tempo della “grande famiglia”, del padre Sarkifada, notabile del villaggio animato da un profondo senso di giustizia sociale, delle sue “madri” coraggiose – “una donna è madre quando cura i figli del mondo”, ha scritto Ibrahim –, ciascuna capace di forgiare in lui un sentimento commisto di solidarietà e responsabilità che, dopo la morte del padre, lo avrebbe assistito, portandolo improvvisamente all’età adulta.
Nel suo discorso ritrovo molti riferimenti, a iniziare dalla costruzione della soggettività nel contesto permeabile della cultura domestica e della parentela africane, dove il dato biologico conta molto meno delle relazioni tra persone e lo straniero cessa di essere tale nell’istante in cui chiede di essere accolto. Punti luminosi vanno a congiungersi lungo il filo della sua infanzia e adolescenza, appaiono modelli virtuosi di politica sociale negoziata dal basso, di leadership su piccola scala, di economia informale e imprenditorialità femminile per combattere l’indigenza.
Conosco Ibrahim in una stagione di atroce “normalità”: normale è la guerra infinita combattuta all’estremità orientale del Vecchio continente; normali le morti in mare che scandiscono l’informazione in nome di un “problema gestionale” che impegna la nostra sovranità sulla frontiera esterna; normale e ampiamente condiviso il linguaggio che dà potere alle forze che ci governano.
«Da poco si è rinnovato, nel silenzio delle parti, un atto formalmente anti-democratico perché mai sottoposto al vaglio parlamentare, che chiama “cooperazione bilaterale” una delega integrale di sorveglianza e controllo della frontiera esterna. Nella pratica si convalida l’esercizio di un potere incondizionato di vita e di morte sui protagonisti dell’immigrazione clandestina», con buona pace della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e delle numerose altre Convenzioni internazionali firmate dalla Libia, che il rinnovo del “Memorandum d’Intesa” – almeno, finché sarà tacito – deliberatamente ignora.
Il discorso del mio interlocutore non teme salti temporali né il buio del Mediterraneo. Non gli chiedo della Libia, dove è stato detenuto e da dove è riuscito a salpare. Il libro parla per lui. Gli domando cosa cambierebbe del nostro sistema di accoglienza: «Non è tanto questione di regole, ma di attitudine: l’onestà di chi ci considera persone, prima che risorse, è la base per una buona politica di accoglienza, ma è anche la crepa più evidente del sistema. Non sto parlando di chi salva vite in mare: dove starebbe qui l’interesse privato? L’integrazione in Italia sembra impossibile perché presuppone il consenso pieno e reciproco di due parti».
«Quelli che vediamo sono piuttosto esempi di inclusione». Arrivato in Italia alla fine del 2015, Ibrahim ha ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale avviando poi, nel Ponente ligure, un percorso di inserimento socio-economico nell’ambito del sistema Sprar, con la partecipazione a una serie di incontri pubblici e progetti di formazione e lavoro supportati da enti locali e del terzo settore (in particolare la rete YEPP, anche a livello europeo).
A 27 anni, da artigiano della calzatura – mestiere imparato a Douala, ancora quindicenne – Ibrahim conosce bene gli slittamenti concettuali del linguaggio politico, le sue forzature, le tattiche mediatiche utili a scandire la consueta narrativa emergenziale, che produce assuefazione e intorpidimento. Questo stesso stato generalizzato di “spettatori al di qua della frontiera” ci impedisce di registrare le realtà che abbiamo di fronte, falsando le coordinate che mi consentirebbero di rivivere la sua storia: un lasso di tempo che fatico a declinare e – fisicamente – a “com-prendere”.
Considero allora la mia vertigine come un principio di ravvedimento. Il vissuto, anche se necessariamente evocato per frammenti, non perde coerenza, anzi esce rafforzato dal racconto: la dimensione femminile onnipresente – “le donne sono la luce del mondo, sicuramente del mio”, ha scritto –, la scuola e la capacità di essere ascoltati, di essere portatori di interessi collettivi; poi l’inasprirsi della guerra civile nell’Ovest del Paese, il dilagare dei gruppi jihadisti di Boko Haram con i rapimenti e gli eccidi, la fuga in Algeria… prima dell’inferno libico.
«Molti pensano che non sappiamo da dove arrivino le armi», dice parlando dei “generali” e dei “potentati locali anti-governativi” nigeriani che finanziano l’organizzazione criminale, della cattiva coscienza di chiunque abbia dichiarato Boko Haram sconfitto. Anziché ricette pronte da parte di chi, come lui, ha avuto esperienza diretta di conflitti decennali che insanguinano un’intera regione del Continente, trovo consapevolezza. I suoi riflettori sono ben accesi.
«Thomas Sankara resta un esempio imprescindibile. Ora però l’Africa non è più quella delle generazioni post-coloniali, c’è un’energia diversa nei giovani. Si conoscono meglio le molte maniere escogitate dalle forze economiche e di governo per instaurare favoritismi come quelli subiti dai camerunesi occidentali, che si sentono scarsamente rappresentati, o regimi di controllo sulle risorse e di dipendenza dalle grandi potenze, non solo occidentali. Oggi esiste un nuovo panafricanismo».
E, a sorpresa, Ibrahim cita l’esempio di un griot, Tiken Jah Fakoly, musicista ivoriano, alfiere di un “risveglio delle coscienze” che giunge a rinnovarsi nelle istanze sociali di una gioventù africana in movimento: il pensiero dei padri nobili dell’indipendenza è riesumato, riassemblato e attualizzato nell’esperienza – talvolta sprotetta – della libera ricerca di una dignità sociale e culturale. Da questo punto di vista, anziché sommergerli, “la mobilità salverà gli africani: è una marcia in più per navigare nel mondo” – così Hakim, esponente di Timidria, associazione tuareg per la lotta contro la riduzione in schiavitù (Tahoua, Niger, 2010).
E se molto di quello che proviene dal Sud del mondo ha un sentore di incertezza e frammentazione, è forse la nostra stessa realtà a ritorcersi contro noi spettatori, perché la viviamo così: sezionata, smembrata. Tanto che, a distanza ridotta, non siamo pronti a riconoscerla. Da quei frammenti, contro ogni esito atteso, Ibrahim emerge integro, perché è un uomo del suo tempo.
Prima di salutarmi, mi mette a parte di un suo sogno in divenire: fondare un centro per orfani e ragazze madri in Camerun. Sono sicuro che ce la farà. Poi, mentre ci stringiamo la mano, con un lampo negli occhi aggiunge: «In Italia c’è razzismo, ma nessuno nasce razzista. Non vi fate confondere».
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