16 Dic 2022

Storie di nonviolenza e di obiezione professionale all’industria bellica

Scritto da: Laura Tussi

Da decenni si verificano esempi di resistenza nonviolenta interni alla stessa industria bellica, portati avanti da lavoratori che si rifiutano di produrre macchine di morte e si attivano per cambiare le cose dall'interno del sistema. Questi esempi vanno conosciuti e valorizzati, perché rappresentano il terreno su cui erigere una nuova cultura, anche politica, che ripudi davvero la guerra.

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Mio nonno materno Luigi Belluschi è un esempio di obiezione professionale all’industria bellica. Durante il ventennio fascista e sotto l’occupazione nazifascista lavorò come operaio specializzato, ossia gruista sugli altiforni, presso la Breda di Sesto San Giovanni. Lui lavorava in produzione bellica per il regime nazifascista, ma da varie fonti è emerso che veniva licenziato e in seguito riassunto più volte. Perché lui era un sabotatore: rallentava la produzione bellica oltre a manomettere i tralicci del telefono con i suoi compagni. I fascisti venivano a cercarlo e mia nonna rispondeva che era in “produzione bellica”.

Morto prima che nascessi, non ha mai raccontato la sua storia e non ha mai testimoniato in pubblico. Da varie fonti risulta che non fu mai deportato perché serviva a produrre le armi. Un lavoro estremamente faticoso e logorante sugli altiforni: lo hanno schiavizzato in Italia, non lo hanno mai deportato e schiavizzato in un Lager, sebbene fosse comunista e avesse partecipato a Milano agli scioperi del 1943 e 1944. Mio nonno era del 1904. Non apparteneva a formazioni partigiane, ma era un ‘cane sciolto’. Un resistente e ha contribuito alla resistenza antifascista.

ESEMPI DI OBIEZIONE ALL’INDUSTRIA BELLICA

Caso significativo di obiezione all’industria bellica nel nostro Paese è quello degli 805 lavoratori delle officine Moncenisio di Condove, vicino a Torino, che il 24 settembre 1970 approvano all’unanimità in assemblea una mozione contro la produzione di armi dell’azienda. Il documento dice: “I lavoratori delle officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili e che la pace è supremo interesse e massimo bene del genere umano […], diffidano la direzione della loro officina dall’assumere commesse di armi, proiettili, siluri o altro materiale destinato alla preparazione o all’esercizio della violenza armata di cui non possono e non vogliono farsi complici”.

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In conclusione, i lavoratori chiedevano “alle organizzazioni sindacali di appoggiare la loro strategia di pace. Invitano caldamente i lavoratori italiani in tutto il mondo a seguire il loro esempio di coerenti e attivi costruttori di pace“. Un’iniziativa che ebbe larga eco e contribuì a dare nuovi impulsi alle lotte per le conversioni a fini pacifici delle industrie belliche.

I LAVORATORI PACIFISTI OBIETTORI ALLA PRODUZIONE DI ARMI

Noti sono poi i casi di singoli lavoratori che si sono rifiutati di produrre armi: Maurizio Saggioro si rifiuta di produrre componenti per armi presso la Metalli Pressati Rinaldi di Bollate vicino a Milano. Nel gennaio 1981 chiede il trasferimento a un altro reparto, ma viene licenziato. Nel 1983 Gianluigi Previtali si dimette dall’Aermacchi di Varese contro la produzione di armamenti.

Inoltre attualmente è necessario e opportuno menzionare e sostenere i portuali del Calp di Genova, che si rifiutano di caricare le navi di armi. E ancora, dal comitato di riconversione RWM – azienda che produce ordigni bellici e bombe – in Sardegna è nata l’idea di ridare speranza al territorio attraverso un modello di impresa sostenibile, con un’economia pulita e posti di lavoro, dove la pace si mette in rete. Come l’operaio della RWM Giorgio Isulu che circa un anno fa ha iniziato il suo nuovo lavoro nell’azienda agricola l’Agrumeto.

L’ANTAGONISMO SINDACALE ALL’INTERNO DELL’AERMACCHI DI VARESE

Intorno agli anni ‘80 nacque nel contesto della Aermacchi di Varese un gruppo di attivisti antimilitaristi grazie al sostegno della FLM, in un primo momento, e della Fim-Cisl in un secondo momento. Un gruppo informale che promosse collette di solidarietà con popoli e movimenti vittime del fuoco delle armi italiane attraverso tecniche di conflittualità non convenzionali come scioperi, digiuni e collettivi di fabbrica per giungere nel 1986 alla disobbedienza civile attraverso l’aperta adesione di alcuni suoi componenti all’obiezione di coscienza congiunta all’uso del digiuno di cinque giorni contro gli euromissili, contro la corsa al riarmo e per denunciare nel 1988 l’Aermacchi in quanto industria violatrice degli embarghi Onu contro Iran e Iraq.

L’attuazione a livello politico della nonviolenza costituisce un reale pericolo non solo per il totalitarismo dell’est, ma anche e soprattutto per il capitalismo occidentale

La reazione, nel gennaio del 1991, del direttivo aziendale fu largamente prevedibile: l’attivazione della cassa integrazione della cellula di lavoratori antimilitaristi. Espulsioni che crearono le condizioni per la nascita del comitato cassintegrati Aermacchi per la pace e il diritto al lavoro il quale, grazie ai preziosi contributi del MIR, della Cisl, delle Acli e del comitato contro la guerra del Golfo di Busto Arsizio, riuscì a portare le proprie lagnanze fino alla 21ª commissione del lavoro del Parlamento, attraverso una struttura a rete.

UNA PROPOSTA DI LEGGE PER LA RICONVERSIONE DELL’INDUSTRIA BELLICA

Nel 1993 il comitato riuscì a formulare una proposta di legge regionale per la promozione della riconversione dell’industria bellica formalmente presentata da una coalizione politica trasversale di centro-sinistra. Anche a seguito di questa iniziativa, prese avvio l’osservatorio sull’industria militare. A distanza di breve tempo, per evitare ulteriore incremento di licenziamenti, Aermacchi riuscì a esercitare una pressione uguale per intensità e contraria per la finalità sulle istituzioni politiche sindacali volte a favorire l’approvazione in tempi brevi del nuovo modello di difesa.

L’operazione raggiunse l’auspicato obiettivo soprattutto grazie ai sindacati FIM-Fiom e Uilm. Venne definito il modelli di Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta – opposta al Nuovo Modello di Difesa – ovvero uno strumento di difesa che non comporta l’uso delle armi e alternativo a quello militare in ottemperanza al principio costituzionale del ripudio della guerra di cui all’art.11 e al fine di favorire l’adempimento dei doveri inderogabili di  difesa della patria di cui all’art. 52.

L’ALTERNATIVA NONVIOLENTA AL NUOVO MODELLO DI DIFESA

In primo luogo, sotto il profilo ideologico, l’interpretazione data dagli attivisti contrari al nuovo modello di difesa è di tipo ecopacifista ed è suffragata dalle analisi dei periodici Giano, Il Manifesto, Metafora verde, dalla rivista Capitiniana Azione nonviolenta e infine dagli studi di Allegretti editi dall’edizione cultura della pace.

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Foto Cobas

Quanto alle istituzioni politico-culturali nel cui ambito si muovono gli attivisti, queste sono la FNM-Cisl, IRES e la rete di formazione non violenta e l’IPRI, mentre gli strumenti di comunicazione di massa attraverso i quali hanno promosso una strategia di controinformazione antimilitarista sono stati Alfazeta, periodico ufficiale della CISL, Radio Popolare e Avvenimenti. In secondo luogo c’è l’attivismo con un’alternativa radicale al modello di difesa tradizionale che agevolmente possiamo riassumere nel modo seguente: l’attuazione a livello politico della nonviolenza costituisce un reale pericolo non solo per il totalitarismo dell’est, ma anche e soprattutto per il capitalismo occidentale.

IL MOVIMENTO PER LA PACE E LA NONVIOLENZA

Una reale comprensione della nonviolenza ci consentirà di comprendere la natura profondamente sovversiva che la connota; infatti è il movimento per la pace che si fa portavoce della nonviolenza e ha come suo principale scopo quello di costruire una società civile profondamente diversa da quella attuale perché in grado di risolvere le varie tipologie di conflitti in modo nonviolento. Contrariamente ai modelli di difesa tradizionali, adattare a livello politico la difesa nonviolenta equivale a conferire alla società civile la possibilità di risolvere i conflitti dimostrando in tal modo quanto profondamente legata sia alla nonviolenza la democrazia partecipativa.

Proprio per queste motivazioni è opportuno che il modello dell’attivismo sia esteso e rafforzato così come è opportuno democratizzare l’ONU istituendo nel suo contesto forze di intervento nonviolento. Un esempio in questa direzione ci viene offerta dalla presenza delle Peace Building International in zone di guerra come il Guatemala, lo Sri Lanka o delle organizzazioni come i volontari della pace.

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