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Genova - Incontro Federica in un bar, dove mi aspetta da un po’. Quando arrivo, il suo cane Korin, una femmina di pastore tedesco, mi annusa a lungo, soffermandosi sulle mani e sulle gambe che fino a poco prima ospitavano la mia gatta infreddolita. Probabilmente questo dettaglio non le è sfuggito. Io e Federica non ci vedevamo da tanto tempo. Dopo esserci abbracciate, lei si scusa per essersi presentata “in disordine”, perché arrivata diretta da Milano, e io mi scuso per il ritardo: erano le 15 ed ero solo a metà di una giornata delirante.
Appena mi siedo al tavolino, inizia a raccontarmi tantissime cose e mi porge il suo libro, Cosa mi sarei persa, appena pubblicato da Giacovelli Editore. Un tomo spesso, che sfoglio chiacchierando e noto subito il font ampio, di cui mi spiega la ragione. Un libro tosto, che parla di suicidio, di sofferenza, di vita vissuta e di depressione, tenuta nascosta al mondo dietro un’apparente vita straordinaria per sfuggire alla discriminazione.
Il libro inizia la sera prima del ricovero in una clinica psichiatrica di Firenze. È il 12 luglio 2018. Dopo una serata con un amico, rientra a casa e si ritrova sul balcone insieme al suo cane. Guarda giù. Osserva l’asfalto, verifica lo spazio tra le macchine parcheggiate, pensa all’impatto e cerca di visualizzarlo, di immaginare cosa sentirebbe. Lo fa più volte, finché con il piede destro scavalca la balaustra. Korin capisce al volo la situazione e, in preda all’agitazione, afferra con la bocca la sua gamba e la tira giù.
Il cane ha capito, il cane l’ha salvata. Più volte nel libro Federica fa riferimento alla profonda empatia degli animali che dimostrano in ogni occasione la loro capacità di toccare il suo dolore rispetto agli esseri umani che la circondano, i quali non tutti hanno una tale sensibilità. La mattina dopo si sarebbe trasferita a Firenze spontaneamente: «Il mio è stato ricovero volontario – mi spiega – una richiesta d’aiuto, il mio volermi proteggere in qualche modo».
Federica, com’è nata l’idea di scrivere un libro così intimo?
L’estate 2019 fu l’anniversario del mio ricovero volontario in una clinica psichiatrica. Ogni giorno rivivevo ciò che era avvenuto l’anno precedente: guardavo l’orologio e pensavo: “A quest’ora stanno servendo la cena”, mi immaginavo in giardino sulla panchina, in ufficio a parlare col mio dottore o nel “mio” letto. Non riuscivo a separarmi da quel luogo di cui ero diventata completamente dipendente.
Fisicamente ero nel mondo, ma mentalmente ero ancora lì e proprio in quel rivivere le tappe della mia degenza decisi di mettermi davanti al computer per scrivere un libro che potesse spiegare cosa si prova quando si vive un’esperienza del genere. Non è incentrato su una clinica psichiatrica o sulla salute mentale in generale, è un libro che parla di vita, di amore, di relazioni umane, di crescita, di cambiamento, di sofferenza… e sì, parla anche di sport e di viaggi! Per questo credo che sia indirizzato a chiunque, non solo a chi sta male o a chi è interessato alla sfera della psichiatria. Qualcuno che l’ha già letto racconta di aver pianto tantissimo, ma di aver anche riso. È stato definito “gelido e caldo”.
Come ti sei sentita quando hai digitato la parola “fine”? Sollevata?
Non ho mai considerato questo libro come uno sfogo, né come una liberazione. Anzi, ho sofferto molto scrivendo alcune cose e ho impiegato più di un anno prima di decidermi a pubblicarlo. Alcune sofferenze diventano inconsciamente un po’ parte di noi e abbiamo bisogno di continuare a viverle finché non le elaboriamo nel modo corretto. Poi ho pensato a cosa mi aveva spinta a scriverlo: aiutare gli altri a convivere con il proprio dolore. Tutti vogliono dimenticare, quando si tratta di traumi e avvenimenti dolorosi. Ma è solo ricordando e accettando che si può andare avanti. Posso dire che mi è stato molto utile non tanto nella stesura quanto nella rilettura a posteriori mesi dopo.
Come mi hai detto più volte, il libro non è semplicemente “la storia di Federica Ooyen”: cosa vuoi far leggere tra le righe?
“La storia di Federica Ooyen” è la storia di milioni di persone. Ho scelto di raccontare alcune parti di me perché era giusto offrire qualcosa di reale al lettore, ma il fulcro non è la mia vita. Attraverso episodi della mia personale esperienza e soprattutto attraverso la mia autoanalisi nella stanza di psicoterapia, tento di far entrare il lettore in empatia con me, in modo che possa intraprendere egli stesso un processo di autoanalisi su sé stesso.
La prima parte infatti è interamente narrativa e segue una linea cronologica…
Sì, è la Fede bambina che racconta. La seconda parte invece diventa molto più analitica: la narrazione è spesso interrotta da voli pindarici, riflessioni, spiegazioni più tecniche, dialoghi reali avvenuti nella stanza di terapia che ho ritenuto talmente preziosi e impattanti da volerli regalare alle altre persone.
Ad aiutarmi in questo processo son state anche le centinaia di messaggi ricevuti tra il 2020 e 2021 in seguito al mio progetto di sensibilizzazione sul tema della salute mentale, quando iniziai a realizzare le magliette F;Ooyen: molti mi confidarono le loro storie, cercando risposte in me che non potevo, non volevo e non ero in grado di fornire, non essendo una terapeuta. Offro però nuovi punti di vista al lettore in modo che possa trovare da sé le proprie risposte o eventuali ulteriori domande che potranno portarlo a bussare alla porta del terapeuta giusto.
Altro punto importante è la questione clinica psichiatrica. Il mio ricovero fu volontario: volevo far riflettere come spesso il ricovero, che nell’immaginario collettivo viene riservato ai “matti”, possa essere invece un bisogno di protezione, quando ci si sente minacciati, o una volontà di punirsi ed espiare una colpa. C’è un sottomessaggio ai genitori, a tutti i professori scolastici, ai terapeuti stessi a guardare oltre, a non fermarsi all’apparenza. Non tutti riescono a esternare o verbalizzare la sofferenza e l’indifferenza non farà che accrescere il sintomo.
La dimensione del font è più grande della media per rendere il libro leggibile anche a chi è sotto farmaci e ha difficoltà di concentrazione: a chi hai pensato quando stendevi le prime bozze?
Questa cosa nello specifico non l’ho mai raccontata a nessuno: il primo giorno di ricovero mi trovavo raggomitolata su una poltrona ad affogare tra le mie lacrime, quando una ragazza dalla bellezza disarmante passò e mi sorrise. Ogni mattina passava a trovarmi durante le flebo e mi fece portare una coperta di lana quando mi vide tremante nonostante i 38 gradi estivi. Divenne la mia più cara amica lì dentro.
Quando venne dimessa, il mio cuore andò in mille pezzi; per farmi sentire meno sola mi regalò un libro che aveva con sé, che conservo ancora gelosamente nella mia libreria. Cercai di leggerlo, ma il font era troppo piccolo e i farmaci me ne impedivano la lettura. Lo scaraventai contro il muro urlando. Lo stesso problema si ripresentò anni dopo durante un altro periodo di terapia. Avida lettrice, ero frustrata nel non riuscire più a leggere o a dover riprendere la stessa pagina più volte. Non ho pensato solo al font, ma anche alla lunghezza dei capitoli, delle frasi, alla semplicità della sintassi e alla dinamicità della narrazione.
Ho pensato a me quando ero sotto farmaci o in depressione e a tutto quello che mi avrebbe aiutata, sperando che possa facilitare anche gli altri. Un’altra cosa alla quale ho prestato attenzione sono i trigger: il libro ne è pieno, era inevitabile parlando di certe tematiche. D’altronde non si può fare prevenzione sul suicidio senza parlarne apertamente o spiegare cos’è l’autolesionismo e pretendere che la gente lo capisca senza farne cenno, ma sono sempre seguiti da una coccola. Il titolo stesso è una carezza: la vita può sempre sorprendere ed essere meritevole di essere vissuta, sempre e comunque, nonostante tutto.
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