Tra falafel e cultura, a Palermo Fateh Hamdan si batte per la Palestina e i diritti civili
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Palermo - In passato avrei fatto carte false per poter vivere a Palermo. Un’attrazione emotiva per questa città, per nulla razionale, mi ha sempre accompagnato. Andando oltre i suoi enormi e oggettivi problemi, un richiamo profondo, a cui non saprei dare un nome, mi ha sempre portato a prendere le sue difese. Sarebbe riduttivo dire che dipende “solo” dalla bellezza, spesso mascherata e trasandata di molti angoli della città. C’è anche questo aspetto, ma c’è molto di più.
Vivere a Palermo è come vivere in più parti del mondo simultaneamente, assaporando tradizioni, culture e volti anche molto distanti da noi. Accade in tutte le grandi città, ma in ognuna avviene in modo diverso perché i processi di integrazione hanno avuto storie ed evoluzioni diverse. Anche questa volta Palermo non si è smentita ai miei occhi e nel suo cuore: tra vicoletti e vita vissuta infatti, ho incontrato la Palestina attraverso gli occhi e i racconti di Fateh Hamdan.
«Appena sono arrivato a Palermo e ho fatto la prima iniziativa per la Palestina, sono stato chiamato dalla Digos». Con queste parole Fateh si presenta stringendomi la mano. Lo incontro negli spazi dell’associazione culturale che gestisce insieme ad altre famiglie palestinesi, dove da dieci anni tutte le sere accoglie una clientela amica che viene a mangiare i falafel più buoni della città.
La foto di Che Guevara da un lato, quella di Arafat dall’altro, tanti libri e tanta vita vissuta animano questo luogo. Anche la sua attività di ristorazione incarna i valori e i diritti a cui Fateh si è sempre ispirato: una politica democratica e di accoglienza. A lavorare con lui sono tre donne marocchine in cucina e due ragazzi del Gambia in sala, a volte coadiuvati da una ragazza palermitana.
Fateh è arrivato a Palermo nel 1980, dopo aver frequentato il corso di lingua italiana all’Università per stranieri di Urbino, dove era iscritto. Aveva scelto altre città italiane, ma casualmente si è ritrovato a vivere qui partecipando attivamente ai suoi grandi cambiamenti e da allora non è più andato via.
«Faccio cultura, politica, ho la fissazione per la liberazione della Palestina. Ho lavorato nel sindacato, ho aperto parecchi anni fa il primo sportello per gli immigrati della CGIL proprio per aiutare chi arrivava a integrarsi. Accanto al tema della Palestina, che ho sempre a cuore, ho contribuito e vissuto la vita culturale di questo luogo attraverso convegni, mostre, musica, presentazioni di libri e cinema», racconta Fateh.
Nonostante un certo aplomb e un’ironia sorniona, non nasconde il suo trasporto per la sua terra d’origine. Anche durante la nostra chiacchierata la voce araba di Al Jazeera resta sullo sfondo. La mattina, appena sveglio, con il cuore e la testa è proiettato a quanto accade in Palestina, dove ogni giorno qualcuno viene ucciso in nome di non si sa cosa. «Il mio pensiero per la Palestina non è nazionalistico, non bisogna confondere l’essere patriota con l’internazionalismo, che è l’elemento che manca nel linguaggio culturale di oggi. Un grave problema per la sinistra e per chi combatte per i diritti umani».
Secondo Fateh, ciò che accade in Ucraina, Palestina, Africa è strettamente legato con la nostra vita quotidiana, anche di Palermo, e non valutare questo legame è sinonimo di un pensiero limitato: «Io lotto all’interno della comunità araba per affermare la democrazia, la laicità di un percorso di autodeterminazione che si distacchi dal corano e dall’uso improprio della religione. C’è una carenza di cultura democratica enorme nel mondo arabo e questa è la difficoltà più grossa».
«Io mi batto contro i paesi più conservatori, ma anche per gli immigrati che vivono fuori, in questo caso a Palermo. Devono rendersi conto, devono imparare a esercitare la cultura democratica nel paese in cui vivono, guardando con occhi diversi quella da cui provengono», continua Fateh.
Ai suoi occhi Palermo è una città molto tollerante, per tradizioni storiche e per carattere di chi la abita. Avendo sempre vissuto nel centro storico della città ne ha colto l’anima più vera, il clima, l’atmosfera e soprattutto l’umiltà della gente con cui ci si può sempre confrontare. Il suo “amore” per Palermo è stato immediato.
«Qui trovi un’integrazione positiva e vera. Certo, c’è anche quella integrazione più fittizia, di convenienza. Palermo l’ho vista cambiare molto in questi anni, sono stato coinvolto anche con la rete e il movimento di sinistra dagli anni ‘80 in poi. Un cambiamento totale, una città bella e sicura, dopo il ‘92 non è più successo nulla. Faccio parte di addiopizzo e nessuno mi ha mai chiesto nulla», conclude Fateh.
Il suo è un racconto che dà speranza, anche se fortemente in contrasto con un certo modo di fare politica e non solo italiano. Il potere di pochi paesi colonialisti, ai suoi occhi, influenza, agevola e protegge certe dinamiche politiche, appannaggio di alcuni popoli che difficilmente saranno integrati in un processo di unione e fratellanza che possa invece avvicinare tutti gli stati. Ma il suo esempio è la dimostrazione che a Palermo, mentre si mangiano i falafel, è possibile lottare per la Palestina e per i diritti civili che riguardano noi tutti.
Chi ha voglia di fare un salto in giro per il mondo, restando ben piantato a Palermo nel cuore della movida della città, può andare a trovare Fateh al ristorante e chiacchierare di Ucraina, politica, geopolitica, Unione Europea ma soprattutto di democrazia, diritti, laicità e fratellanza. La sensazione che si prova entrando a Al Quds è quella di un luogo familiare, intimo e discreto, in cui ci si può confrontare con libertà e rispetto. Come si fa tra amici.
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