Dal porto di Genova stanno transitando sempre più armamenti: cosa sta succedendo?
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Genova - È lunedì mattina. Incontro Josè Nivoi, il referente USB Navi e Porti, in una caffetteria in centro a Genova. Prima di consumare le nostre ordinazioni chiacchieriamo un po’: lui è un fiume in piena. Faccio raffreddare il mio cappuccino, da quanto mi prende il suo raccontare. Parliamo di guerre nel mondo, di pacifismo, del transito di armamenti nei porti, di attivismo.
Dopo aver lavorato quindici anni in porto, oggi José è un sindacalista ed è il coordinatore nazionale dell’unione sindacale USB dei porti italiani che, oltre a Genova, lega Trieste, Civitavecchia, Livorno, Napoli e parzialmente Palermo. «Ho iniziato presto – racconta –, ero già sulle banchine a 21 anni e a 24 militavo nel sindacato». Lui è un “figlio d’arte”, perché è cresciuto in una famiglia di sindacalisti ed è diventato uno dei più giovani sindacalisti al Porto.
L’interesse dei portuali nei confronti della questione armamenti, in primis per un fattore etico, risale al 2019. Era l’epoca delle rivoluzioni colorate, era l’inizio della destabilizzazione della Libia, della guerra nel nord della Siria. «In quel periodo avevamo notato un incremento di armamenti della compagnia Bahri, dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita e alla Turchia, a poca distanza da confine siriano».
Dopo un primo periodo dedicato allo studio della situazione, sono arrivate le mobilitazioni e i quattro blocchi – l’ultimo dei quali l’abbiamo raccontato qui. «Grazie a una serie di studi legali, abbiamo iniziato a portare alla luce tutte le contraddizioni sul trasferimento di armi». Oggi Nivoi è il catalizzatore del pensiero del collettivo USB. Ecco perché mi faccio raccontare da lui cosa sta accadendo in porto.
COSA STA SUCCEDENDO
Nivoi mi spiega che lui e i colleghi hanno notato un aumento della quantità di armi in transito della compagnia saudita Bahri, soprattutto carri armati ed elicotteri apache. «Monitoriamo il numero di questi armamenti che transitano dal porto di Genova, grazie a lavoratori che la pensano come noi».
Se fino ad alcuni mesi fa gli spostamenti erano per lo più carri attrezzi per la rimozione dei rottami dai campi di battaglia, qualche carro armato ed elicotteri apache, negli ultimi otto mesi è stato registrato un innalzamento esponenziale di questo tipo di materiale: dalle casse di munizioni alle casse di ordigni esplosivi, oltre a tutte le forniture di guerra citate prima. Destinazione Arabia Saudita. «La beffa? La scritta Dio vi benedica, proprio sopra alla mitragliatrice degli elicotteri».
«Quello che chiediamo è il rispetto dalla legge 185/90 che vieta anche il transito di armamenti verso Paesi in guerra e che vengano rispettate anche le norme di sicurezza sul lavoro». Anche perché questi carichi di “merci” – così vengono definite – transitano indisturbate anche laddove ai migranti viene impedito di sbarcare. In questi anni sono stati depositati una serie di esposti a capitaneria di porto, all’autorità portuale, alla prefettura. «Tutti questi enti, negli anni, non ci hanno mai dato una risposta concreta. Quindi noi continuiamo a martellare».
E poi c’è la questione sicurezza: «A Genova c’è una netta mancanza di DUVRI, il Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza. Di fatto non viene quasi mai calcolato il rischio di incidente eccezionale relativo a queste merci pericolose. Si parla di dodici container di circa 30 tonnellate l’uno di merci che hanno come unico scopo quello di distruggere». Contestualizzando: a poche centinaia di metri dal porto di Genova c’è il deposito petrolchimico che farebbe da accelerante all’esplosivo e poco più in là il popoloso quartiere di Sampierdarena.
«Lo scrupolo di emettere questi documenti, con i calcoli dei rischi, non può essere solo aziendale e affidato quindi alla singola compagnia, perché di riflesso le eventuali conseguenze di un incidente ricadrebbero sulla cittadinanza. Ce lo ricordiamo tutti cos’è successo a Beirut nel 2020. Ed erano solo concimi e fertilizzanti».
«Noi siamo il crocevia degli armamenti provenienti dagli Stati Uniti e da questa parte non ci vogliamo stare». Per questo non abbassano la guardia. «Quando poi scoppierà l’ennesimo conflitto non si potrà dire che non lo sapevamo», aggiunge riflettendo sul fatto che il missile che esplode è semplicemente l’atto finale di una catena di produzione che inizia qui in occidente, con progettazione e logistica. «Bloccare questo ingranaggio è il motivo della nostra lotta».
CHE FARE?
Nivoi sostiene che ad oggi è essenziale incominciare a tessere relazioni per creare quella forza capace di bloccare effettivamente il passaggio di questi armamenti. «Occorre un fronte unico, popolare, reale che è esattamente quello che ci ha fatto vincere nel 2019. Fuori dai cancelli e dai varchi a gridare insieme con un’unica voce c’erano tutti, dal giovane scout all’anarchico».
Il primo passo è quindi mettere insieme tutti i tasselli di realtà che, seppur distanti tra loro su certe tematiche, possano unirsi per fare di nuovo blocco sociale e ricostruire il movimento pacifista. Sicuramente la guerra in Ucraina ha acceso le coscienze: «Certo, un conto è parlare di guerre dall’altra parte del mondo, un altro è averla alle porte di casa».
Quello che però questi portuali cercano di fare è fare fronte su tutti i conflitti di oggi. «La guerra è un problema che riguarda tutti», sottolinea. «Al di là delle bandiere e dei colori politici bisogna cercare di cambiarlo questo modello sociale e contrastare il mondo militarista in cui oggi viviamo». Per questo Josè fa un appello alla mobilitazione collettiva: «Mai come oggi è importante costruire una società diversa».
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