Timor Est e la difficile strada verso l’indipendenza, fra colonialismi antichi e moderni
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Delicata gemma della biodiversità sottomarina, isola pressoché incontaminata ed essenziale crocevia fra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, Timor Est nasconde dietro il proprio suggestivo ed esotico aspetto un cuore ferito, una identità ancora fragile e ottenuta solo dopo secoli di sofferenze.
Punto di contatto fra l’estremo oriente e la Melanesia, Timor Est ha avuto un passato tormentato, il cui eco tragico è arrivato in Occidente troppo smorzato per toccare le nostre coscienze, ma che conserva anche il seme della rinascita: grazie alle sue risorse naturali e a un fiducioso slancio degli investimenti locali ed esteri, il piccolo Paese asiatico ha uno dei tassi crescita economica più alti della sua area geografica e può guardare al futuro con speranza ed ottimismo.
La storia della giovane Repubblica Democratica affonda le sue radici, come quella di tanti paesi, nel colonialismo europeo, che dal XVI secolo ha spezzato l’equilibrio in essere fra i tanti piccoli regni locali. Stanziati nella regione malese di Malacca, i portoghesi si spingono, all’inizio del Cinquecento, verso questa vicina e promettente isola attirati dal pregiato legno di sandalo, che per secoli svolgerà un ruolo di fondamentale propulsore della piccola economia locale, al punto da identificare Timor come isola dove nasce il sandalo nella cartografia portoghese.
Come era tipico della loro strategia coloniale tuttavia, i portoghesi non crearono nessun insediamento stabile sull’isola, limitandosi a sfruttarne le potenzialità commerciali e l’occupazione del territorio comincia solo verso la fine del secolo, per iniziativa dei padri missionari domenicani. In questo preciso momento Timor Est intreccia la sua storia con quella della Chiesa di Roma, una connessione che sarà determinante per il riscatto del Paese in epoca più recente.
Per secoli l’amministrazione coloniale portoghese – amichevolmente convivente con quella olandese, che detiene a sua volta la sovranità su una parte di isola – si svolge in maniera sostanzialmente ordinaria, fino a che, con l’eccezione di una breve ma turbolenta occupazione giapponese nel corso della Seconda guerra mondiale, gli eventi subiscono una improvvisa e drammatica accelerazione: nel 1975 i portoghesi decidono di abbandonare la parte orientale dell’isola – quella occidentale era passata sotto la sovranità indonesiana nel 1949 – lasciando ai neocostituiti partiti locali il compito di decidere, tramite elezioni democratiche, il destino del Paese.
Dopo convulse vicende rapidamente succedutesi, il FRETILIN – Fronte Rivoluzionario di Timor Est Indipendente – prevale e l’indipendenza si realizza. Si tratta tuttavia di un conseguimento decisamente effimero: nel giro di pochi giorni le truppe dell’esercito indonesiano invadono l’isola ed entro la fine dell’anno solare Timor Est viene dichiarata unilateralmente provincia dell’Indonesia. Da quel momento e per i successivi anni si scatena una sanguinosa guerriglia fra le milizie locali e l’esercito regolare indonesiano – saranno più di 200mila i locali uccisi nel corso di questo conflitto endemico.
La potente stretta del leader Suharto si avvolge al collo dalla piccola isola e la severità della repressione aumenta, poiché il colosso indonesiano, composto da una eterogenea moltitudine di etnie differenti, non può assolutamente permettersi di creare un precedente, concedendo indulgenza a una di queste e venendo meno alla perentoria necessità di mantenere unito e centralizzato il paese.
Al contempo interviene una logica di sistema che, cinicamente, finisce per penalizzare i timorani: l’Indonesia è forse il più importante dei paesi non ufficialmente allineati nel corso della Guerra Fredda e nessuna delle due fazioni si vuole alienare i favori di Suharto prendendo le parti – militarmente ma neanche verbalmente – della piccola isola. Addirittura peggio fa l’Australia, stipulando con l’Indonesia un trattato di sfruttamento congiunto delle consistenti risorse petrolifere off-shore giacenti nel Mar di Timor.
Pur non sporcandosi direttamente le mani, anche gli Stati Uniti, che intrattengono con Suharto un rapporto particolarmente amichevole, ignorano le atroci angherie perpetrate dall’esercito indonesiano nei confronti dei timoresi. Esiste un’unica forza che cresce e – sola – prende le difese dei vessati autoctoni: la Chiesa di Roma – interessata a tutelare una vera e propria exclave cattolica in una regione storicamente refrattaria all’evangelizzazione, con la sola eccezione delle Filippine – raccoglie consensi e vede aumentare rapidamente la precentuale di conversione.
Proprio la rigida autorevolezza del controllo indonesiano contiene i prodromi dell’accelerazione della diffusione della fede cattolica a Timor Est: pur essendo uno stato multiconfessionale infatti, l’Indonesia vieta per legge l’ateismo, spingendo così i locali ad abbracciare il credo dei suoi benevoli ed unici protettori. Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, le carte vengono mischiate ancora una volta; l’Indonesia attraversa una pesante crisi economica e, venendo in parte meno l’autorità con cui controlla i territori, genera indirettamente la nascita di credibili movimenti separatisti.
Nel 1998 Suharto viene costretto a dimettersi e la Chiesa continua la sua battaglia d’opinione a favore dell’autodeterminazione dell’isola. I venti del cambiamento sono ormai inarrestabili e nel 1999 viene finalmente indetto il referendum per l’indipendenza, che sancisce, a maggioranza schiacciante, la nascita formale della Repubblica Democratica di Timor Est. Serviranno però tre anni prima che la guerra civile, seguita al plebiscito, permetta al Governo della capitale Dili di esercitare in piena autorità e altri anni di conflitto interno feriranno l’anima dell’isola nel periodo successivo.
Timor Est rimane ancora oggi una nazione povera, lacerata da divisioni interne e alla ricerca di una stabilità politica che è condizione fondamentale per il rilancio del Paese; la sua economia dipende ancora in gran parte dagli aiuti internazionali e le preziose risorse naturali rimangono in attesa di essere strumento di definitivo affrancamento dal tormento della sua storia.
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