“Vogliamo continuare a stringere accordi con uno Stato abusatore?”. Gli psicologi italiani contro l’accordo Italia-Libia
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Genova - Dal 2017 è in vigore l’accordo tra Italia e Libia per limitare gli sbarchi di migranti sul territorio italiano e tenere fuori dall’Europa rifugiati e richiedenti asilo. A febbraio 2020 l’intesa è stata rinnovata per altri tre anni. Le conseguenze? Alimentare un sistema che provoca maltrattamenti sulla pelle di tante persone che lasciano tutto in cerca di un futuro migliore e che una volta arrivati in Libia si ritrovano, di fatto, intrappolati.
Il memorandum prevede che il Governo italiano garantisca finanziamenti e supporto tecnico alle autorità libiche per ridurre i flussi migratori, affidando loro la sorveglianza del Mediterraneo attraverso motovedette, un centro di coordinamento marittimo e di attività di formazione. L’Italia, in sostanza, finanzia la Guardia Costiera Libica perché blocchi le partenze, nonostante questa sia largamente costituita da milizie armate che sono in stretto contatto con i trafficanti di esseri umani.
Ho voluto parlare della questione, delicata e toccante, con il dottor Federico Brundo, psicologo e psicoterapeuta, custode di decine e decine di storie di sofferenza e abusi, che ha visto con i propri occhi l’evolversi di questa situazione, lavorando a Genova proprio con la salute dei migranti, prima come operatore in un centro di seconda accoglienza per minori fino al 2017, a partire dal 2018 all’ospedale Gaslini e ora all’ospedale Galliera.
Il 2 novembre è scaduto il termine entro il quale l’Italia avrebbe potuto interrompere il rinnovo automatico degli accordi, che invece il 2 febbraio verranno automaticamente rinnovati. Ecco perché Brundo ha deciso di coinvolgere altri professionisti di tutta Italia che si occupano di salute mentale dei migranti: “Vogliamo continuare a stringere accordi con uno stato abusatore?” è stato il motto della sua iniziativa spontanea per sensibilizzare più persone possibili su questo spinoso tema.
Così realizza un video su YouTube (lo vedete qui sopra) dove espone la sua posizione, sostenuta da svariati altri colleghi psicologi, psichiatri e psicoterapeuti, e in cui si chiede che venga messo in discussione l’accordo con lo stato libico, perché incapace di garantire le condizioni minime di dignità e tutela dei migranti. «Chiediamo semplicemente che il nostro paese non si renda complice e finanziatore di torture, stupri e violenze», spiega nel filmato.
Federico, com’è nata l’iniziativa?
Ho scoperto della deadline del 2 novembre la settimana prima, leggendo un post di Amnesty International. Da lì, dopo aver firmato la petizione, ho deciso di attivarmi e coinvolgere altri colleghi. Quello che ne è emerso non è un gruppo di lavoro formale, anche perché siamo tutti sparsi per l’Italia, ma accomunati da un filo comune: la posizione critica sulla questione, dal punto di vista puramente clinico, non politico.
In poco tempo hai quindi girato il video e l’hai montato con le voci degli altri professionisti della salute mentale che hanno aderito al tuo appello.
Sì, in questa prima fase sono rimasto nella dimensione professionale psicologica e psichiatrica perché non volevo che diventasse l’ondata di piazza di operatori del sociale e del terzo settore, ma una testimonianza di quel che sta accadendo, al di là delle proprie posizioni politiche. Ogni giorno tutti noi lavoriamo con persone che in Libia hanno subito delle violenze terribili e il punto è che siamo proprio noi a finanziarle. Questo sta davvero succedendo e la cosa non è opinabile.
L’accordo Italia-Libia, che dovrebbe servire a contenere questa teorica invasione, provoca innumerevoli torture, maltrattamenti e stupri e sono convinto che se le persone sentissero anche solo una parte delle storie che ascoltiamo noi non dormirebbero per settimane. Il memorandum ha una dimensione puramente economica e gestionale, senza alcun risvolto fattuale di quello che causa sulle persone.
Dalla stipula dell’accordo nel 2017 a oggi cosa hai visto? Come si è evoluta la situazione?
Ho visto un netto peggioramento delle condizioni dei migranti: in quei centri di accoglienza, che nei fatti sono dei centri di detenzione, succede di tutto. Diventano luoghi dove le persone vengono torturate, dove non c’è nessuna certezza del diritto. Ho ascoltato decine e decine di testimonianze in questi quattro anni: donne che una volta arrivate in Libia, dove in generale si respira un forte razzismo nei confronti delle persone subsahariane, hanno dovuto concedere favori sessuali per rimanere in vita, uomini che lavorano come schiavi per non finire in carcere, dove spesso vengono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato perché non vigono garanze e tutele.
Le storie che io e i miei colleghi sentiamo ogni giorno sono oggettivamente terribili, di uomini non tutelati, donne abusate quotidianamente. Un ragazzo mi ha raccontato che per andare in bagno doveva calpestare i corpi di persone uccise perché avevano provato a scappare dal centro e lasciate lì, per terra. Un altro giovane a scuola non è più riuscito a studiare scienze, perché arrivato al capitolo sul cervello, è tornato a casa sotto shock: in Libia il suo amico e compagno di viaggio era stato ucciso da un colpo sparato vicinissimo da una guardia che cercava di sedare una situazione di confusione. Quel giorno ha visto frammenti di cervello sparsi per tutta la stanza.
Questa è la realtà, la dimensione di sofferenza, tortura e paura che i migranti si portano dietro e che non riescono a dimenticare. Dopo anni continuano ad avere incubi, a sentire suoni e odori che li riportano esattamente a quando si trovavano in quella condizione di prigionia. La nostra iniziativa, in questo senso, voleva semplicemente portare alla luce i fatti.
Anche se il termine del 2 novembre ormai è scaduto, ritieni che questa iniziativa possa essere allargata a prospettive più ampie?
Sì, anche se per il momento ci siamo concentrati sulla valenza clinica, perché è questa l’esperienza che portiamo, mi vengono in mente altre figure come educatori, assistenti sociali e insegnanti che possano dire: “Sì, tutto questo esiste, sta succedendo davvero”. Quindi sì, siamo assolutamente aperti a un’ulteriore condivisione e ad altri professionisti che vogliano unirsi a noi, per innescare un ragionamento collettivo.
Al progetto di Federico Brundo hanno preso parte: Davide Bonfanti, etnopsicologo – Genova; Natale Losi, psicoterapeuta e antropologo, direttore della scuola etno-sistemico-narrativa di Roma; Valter Tanghetti, etnopsicologo – Brescia; Sara Patti, psichiatra – Genova; Gandolfa Cascio, psicologa psicoterapeuta – Frosinone; Alberto Mascena, psicoterapeuta, docente di psicologia sociale – Bergamo; Roberto Bertolino psicologo del centro Frantz Fanon – Torino; Giacomo Bergamino, psichiatra psicoterapeuta; Simone Spensieri, psichiatra, psicoterapeuta, Francesco Nappi, psicologo psicoterapeuta – ASL Chiavari; Alessandra Lombardo, psicologa psicoterapeuta – Genova.
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