Fra ingiustizia e lotta, il Guatemala dopo cinque secoli di colonizzazione
Seguici su:
Esistono delle sottili linee di oppressione che avvicinano tra loro le esperienze di colonizzazione e neo-colonizzazione nel mondo dal XVI secolo ad oggi. Queste possono essere riassunte in tre correnti principali, che inglobano tutte le altre: l’asservimento dell’uso della terra alle necessità della colonia “madre”, la demonizzazione della cultura indigena e la discriminazione della donna a beneficio di una patriarcalizzazione della società colonizzata.
In alcuni paesi queste linee sono più evidenti, in altri meno. In ogni caso, osservando da vicino l’evoluzione di ogni storia coloniale, questi tre aspetti risultano inevitabilmente chiari. In Guatemala la colonizzazione è iniziata nel 1524 e da allora non si è più fermata. L’unico dettaglio di colore sta nel fatto che l’impresa inaugurata dai conquistadores spagnoli sia passata prima nelle mani degli speculatori tedeschi e poi nelle maglie larghe dell’imperialismo statunitense, nel più classico degli schemi politici centroamericani.
La storia recente del paese – con i suoi trentacinque anni di guerra civile e un genocidio appurato dalla stessa Commissione ONU per il Chiarimento Storico alla fine del secolo scorso – e l’assetto della distribuzione della ricchezza attuale, sono il riflesso plastico di questa ferita coloniale lasciata sanguinare per cinque secoli. Una ferita tristemente imbevuta nella mistificazione e in “Un silenzio fatto di canzoni che non abbiamo potuto cantare” come lo racconta il sagace poeta e diplomatico guatemalteco Luiz Cardoza Y Aragon (“Guatemala, las lineas de su mano”).
Nell’antico cuore dell’impero maya il triplice lascito coloniale è visibile con una chiarezza lampante. Il paese è attualmente stretto nella morsa di un indice della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i più alti dell’America Centrale secondo solo all’Honduras delle migrazioni di massa. Dai tempi della United Fruit Company – attuale Chiquita –, della “legge contro il vagabondaggio” per l’imposizione del lavoro forzato non retribuito (1934) e del tentativo di riforma agraria di Jacobo Arbenz (1952) il ritornello economico non è cambiato: poco meno di una trentina di famiglie di discendenza spagnola o meticcia, vicine agli interessi nordamericani, controllano le maggiori imprese del paese.
I piccoli campesinos indigeni dell’area tropicale nel nord e delle terre “fredde”, situate nella zona centrale e orientale del paese, sono costretti a subirne le volontà industriali, vedendo scivolare via dai piedi la propria terra ancestrale in favore di nuove piantagioni intensive di frutta esotica, caffè e palma africana. La storia del leader q’echì Matias Pop Asig, incarcerato nel 2021 per aver resistito alle angherie della multinazionale della palma Chiquibul nella zona del Rio Salinas a Sayaxche, Petén, è solo una delle più recenti in una lunga lista intrisa di violenza.
Allo stesso tempo il livello di disuguaglianza legato al genere nel paese è tra i più alti del continente. Secondo il Global Gender Gap Report del 2022, in termini di pari opportunità il paese si classifica nelle ultime posizioni all’interno dell’area del Centro e Sud America insieme a Messico e Paraguay, con un divario nella partecipazione alla vita lavorativa tra uomini e donne pari a circa il 40% e livelli di retribuzione degli uomini in media superiori al doppio a parità di funzioni. I dati sui femminicidi nel paese mostrano un allarmante incremento negli ultimi anni, giungendo nel 2022 a una agghiacciante media di due donne uccise ogni giorno per mano di un uomo.
Questo quadro socio-economico sembra fare a pugni con i dati relativi all’esportazione. Il paese è il primo esportatore al mondo di cardamomo e tra i primi cinque esportatori di caffè per quantità netta annuale. Allo stesso tempo la produzione di cacao è tra le più pregiate a livello mondiale e da una decina d’anni a questa parte ha preso forma una intensa attività di estrazione petrolifera nella regione nord del Petén. Il valore aggregato delle esportazioni nel paese ammonta a circa sedici miliardi di dollari. Allo stesso tempo un guatemalteco in media non guadagna più di dieci dollari al giorno.
Dove si ferma allora tutta questa ricchezza? Chiaramente non nelle mani del campesino che la produce. I più grandi agglomerati di ricchezza nel paese sono ancora le poche famiglie di origine spagnola e meticcia che fanno da ponte con la grande finanza internazionale, aprendo le porte a una speculazione agraria ed economica che continua da mezzo millennio.
In un quadro così tetro le vie di uscita a favore dei piccoli produttori indigeni sembrano essere poche o nulle. Tanto meno se donne. Schiacciate dal peso di enormi interessi speculativi internazionali e da governi reazionari che si stendono a semplice propaggine istituzionale delle aziende straniere, le comunità indigene sono costrette all’auto-organizzazione attiva, ricercando nella cooperazione la chiave di volta per scappare dalla soggezione politica ed economica.
In questa lotta impari la guerriglia guatemalteca, che dai primi anni ’60 sino agli accordi di pace del ’96 ha militato in differenti aree del paese, ha giocato e in alcuni casi continua a giocare un ruolo cruciale. Pur di fatto perdendo lo scontro da un punto di vista militare e politico, come dimostra la pacificazione raggiunta nel ‘98 su pressione del Dipartimento di Stato nordamericano, la guerriglia è riuscita in un lavoro di resistenza socio-culturale tanto importante quanto quello militare.
Mentre nella stragrande maggioranza dei paesi colonizzati infatti la forza coloniale è stata tanto schiacciante da riuscire nella cancellazione di una qualsivoglia identità culturale – vedasi la storia di buona parte dei Paesi dell’Africa Subsahariana –, in Guatemala l’identità delle ventidue etnie maya si mantiene forte nonostante le pressioni politiche contrarie. I consigli di gestione indigena e le numerose lotte di resistenza non-violenta per il diritto alla terra ne sono una prova lampante.
Supportare l’identità culturale ancestrale del paese sulla scia della lotta rivoluzionaria rappresenta allora lo strumento capace di sostenere la volontà di riscatto della classe contadina e offrire un’alternativa sociale all’egemonia economica straniera nelle regioni indigene. In questo solco la cooperazione internazionale di base, fatta di piccoli progetti e pochi aiuti socialmente mirati, fuori dai circuiti delle relazioni istituzionali internazionali, rappresenta una opportunità per alimentare la brace della resistenza con nuove risorse. La ONG romana AMKA si inserisce in questa prospettiva con progetti di sostegno comunitario negli ambiti della lotta alla malnutrizione e dell’impulso alla economica locale.
Le aree di intervento sono le regioni indigene più colpite dagli interessi speculativi della grande finanza agro-alimentare, nei dipartimenti del Petén e Huehuetenango. Il centro delle attività dell’organizzazione è un luogo profondamente rappresentativo del lavoro in corso: il villaggio di Nuevo Horizonte in Petén, una comunità composta principalmente da reduci delle milizie rivoluzionarie delle FAR del Nord, unico corpo della guerriglia guatemalteca che, una volta entrati in vigore gli accordi di pace, non ha abbandonato il sogno di una riforma egualitaria e nel 1998 ha dato vita a una cooperativa di lavoro collettivo che continua a macinare giustizia sociale ancora oggi.
Per cambiare un sistema economico perverso, figlio di una storia centenaria, c’è bisogno di promuovere un’alternativa interna, aprire spazi di vendita locale in grado di accorciare le distanze tra chi produce e chi acquista e rendere i campesinos consapevoli del proprio potere d’impresa. Per questo AMKA, insieme ai propri rappresentanti nel paese, ha da poco lanciato una campagna di raccolta fondi per la costruzione di un punto di vendita collettivo dedicato alle donne di Nuevo Horizonte. La tienda mira a divenire un punto di riferimento per le contadine della zona e stimolare l’attivazione di canali di commercializzazione locale che buchino le maglie di una esportazione forzata a basso costo.
È un sogno di giustizia che passa attraverso l’esigenza pratica di dare vita a nuovi spazi di emancipazione e autonomia, in un paese che ha vissuto per secoli il peso del saccheggio. Un nuovo negozio comunitario significa un canale di vendita sicuro, nuovi posti di lavoro, la garanzia di un pagamento giusto alleggerito dal peso di intermediari di comodo, la possibilità di contribuire all’emancipazione femminile attraverso il coinvolgimento delle donne nel servizio di attenzione alla clientela e l’ispirazione di un modello di economia locale virtuosa.
È una minuscola rivoluzione di buonsenso, un passo avanti verso un cammino di dignità che non mira a null’altro che non sia normale – almeno in teoria – nel nostro spicchio di mondo: lavorare per un salario giusto e vedere riconosciute le proprie fatiche fuori dal giogo del servilismo. È possibile donare ora per la campagna “AMKA è Donna” su CostruiamoLaTienda. Ogni euro, ogni click, ha un peso decisivo nel cammino d’indipendenza ed emancipazione delle comunità agricole dell’area del Petén.
AMKA, insieme ai propri incaricati Elena Merlo e Guglielmo Rapino, sarà a Nuevo Horizonte fino al termine dei lavori e potrà garantire sul corretto utilizzo di ogni centesimo. Piccole attività come questa, nate e supportate dal basso per una crescita comunitaria altrettanto dal basso, appaiono come le uniche alternative possibili per uscire da ingranaggi economici ciclopici che dal 1524 ad oggi stanno condannando il Guatemala ad essere un granaio impoverito a beneficio dei paesi colonizzatori.
Nel piccolo, nell’azione mirata, c’è la consapevolezza di un cambiamento davvero efficace e dirompente, capace di rappresentare modello replicabile per una resistenza economica da traslare su scala più ampia. Eduardo Galeano nella sua opera Guatemala, país ocupado definiva il paese centroamericano “una vittima della congiura del silenzio e della menzogna”. Azioni come quella di AMKA mirano a rompere questo silenzio, gettando le fondamenta alla possibilità di un’alternativa economica e sociale realmente sostenibile. Un’alternativa di giustizia che non può essere più rimandata.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento