21 Nov 2022

Le emozioni dei bambini viste da una filosofa

Scritto da: Filò

Il mondo emotivo è un territorio fertile ma inesplorato per i bambini. Sta a noi adulti accompagnarli a scoprirlo in maniera consapevole, senza forzature né censure, ma con accoglienza, comprensione ed empatia. Sara Gomel di Filò - Il filo del pensiero condivide con noi esperienze e alcune considerazioni su come i piccoli affrontano le emozioni.

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C’è una cosa che ultimamente mi interessa molto dei bambini che frequento: le loro emozioni. Non che prima non mi interessassero, figuriamoci, ma forse mai come ora le avevo osservate, esplorate, studiate, tematizzate come tali. Sarà che i percorsi di filosofia a scuola sono più lunghi e stabili oggi rispetto agli ultimi due anni e questo mi permette di conoscere meglio i bambini, sarà che sto lavorando sulle mie, di emozioni, come mai prima d’ora, ma il fatto è questo: ogni giorno sono inondata dalle loro emozioni.

E pensare che era un tema che evocavo con una punta di fastidio, un tempo. Di emozioni si parla troppo, spesso superficialmente. A scuola i bambini imparano i nomi delle emozioni e le associano alle espressioni del viso e ai colori. La rabbia è rossa, la gioia gialla e via così – e bisogna stare attenti, perché associare colori diversi è sacrilegio!

A casa, intuisco ascoltando i loro racconti e parlando con i genitori, non va meglio: le emozioni dei bambini sono o del tutto ignorate – per mancanza di tempo, per noia, perché gli adulti a volte credono che i bambini non abbiano una vita interiore, che siano “plasmabili” a piacimento – oppure amplificate, teatralizzate, e allora il bambino diventa re di un territorio senza confini in cui lui stesso si perde. Capita infatti che genitori molto premurosi amplifichino a tal punto le emozioni dei loro bambini che questi si trovano a dover provare qualcosa che in realtà non provano o che provano solo in piccolissima parte, per accontentare il bisogno di emozione dei loro genitori. Per compiacerli, insomma.

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A questo proposito mi capita di sentire spesso storie di bambini che, considerati dai genitori molto sensibili, vengono “coccolati” fino all’inverosimile, in un modo che tuttavia più che confortare dà luogo a una specie di ubriachezza della libertà: bambini a cui vengono proposti cinque menù diversi per cena, tra cui hanno il privilegio di scegliere, o che possono decidere dove si andrà in vacanza tra infinite opzioni o quali magliette indossare tra le innumerevoli possibilità di un armadio traboccante.

Una bambina mi racconta di aver pianto disperatamente, con rancore, quando i suoi genitori insistevano perché fosse lei a scegliere i pantaloni che doveva indossare quella mattina tra le tre paia che loro avevano selezionato, sottolineando l’opportunità che così le davano di autodeterminarsi. “Ma io non lo sapevo quali volevo!”, mi dice lei con espressione sconsolata.

Non dico con questo che non sia essenziale promuovere l’autonomia dei bambini, anzi, credo che non ci sia nulla di più importante. Ma questa autonomia va accompagnata, guidata: i bambini hanno bisogno di una cornice, hanno bisogno di sapere dove sono e quali sono i limiti del loro agire e soprattutto hanno bisogno di semplicità – la scelta dei pantaloni, per esempio, può essere libera, ma lasciamo da parte enfasi e aspettative adulte.

Anche nel percorso di scoperta delle loro emozioni, i bambini possono e devono essere accompagnati: non ignorati, non censurati, non esaltati, ma accompagnati. E come si fa? Intanto ci vogliono degli adulti emotivamente consapevoli e che delle emozioni, anche quelle più difficili, non abbiano paura. Perché il passo dalla propria paura alla censura dell’altro è immediato, e per paura si insegna ai bambini la vergogna del proprio vissuto, e quindi l’atrofizzazione della libertà.

È difficile per i bambini riconoscere le proprie emozioni, il più delle volte ne sono travolti. Per gli adulti è diverso: per convenzione sociale siamo più abituati a inibirle, a evitarle, a distrarci, in un modo o nell’altro. Possiamo guidare i bambini nell’esplorazione del loro mondo emotivo in quei momenti in cui le emozioni sorgono e fluiscono come un fiume in piena, insegnando loro, nominandole, a riconoscerle. Tutto ciò che viene nominato fa immediatamente meno paura.

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I bambini –- ma forse anche noi adulti, in verità – non aspettano altro che di essere riconosciuti e, potremmo dire, amati per come sono, incondizionatamente. Il riconoscimento delle loro emozioni è, in questo senso, una forma di amore, perché li “libera”, li fa sentire capiti, accolti. Questo non significa che poi ogni emozione possa essere tradotta in azione, perché ci sono azioni che fanno male a sé stessi e agli altri; ma se l’azione può essere disapprovata, il vissuto è sempre legittimo: non è qualcosa che possiamo decidere. Ci accade, semplicemente. Non posso impedirmi di sentire rabbia o allegria, ad esempio.

Durante i miei laboratori capita che alcuni bambini siano particolarmente timidi o silenziosi. Hanno paura di parlare davanti agli altri, di far sentire la loro voce. Io vedo che sono spaventati e invece di spingerli forzatamente a intervenire, insistendo nel “non avere paura”, riconosco il loro disagio e offro loro la mia complicità per provare, insieme, a farci qualcosa. E così è nata la spruzzata di coraggio, una spruzzatina che i bambini ricevono da un flacone invisibile e che ha il potere di dare loro il coraggio che da soli fanno fatica a trovare. In alcuni casi di timidezza assoluta, il piccolo flacone si è trasformato, tra grandi sorrisi, in un barattolo gigantesco da versarsi addosso.

Da allora i bambini si sono abituati a “farsi”, anche autonomamente, delle spruzzate di coraggio – questa cosa mi fa molto ridere! E mi conferma che accompagnarli, guidarli significa, nel tempo, renderli autonomi. La stessa cosa vale per la rabbia o per la tristezza: siamo abituati a ripetere e a ripeterci sempre “non piangere”, “non ti arrabbiare”, “non te la prendere”. Piccoli “no” che diventano, giorno dopo giorno, allontanamento dal proprio sentire: i bambini imparano così a fingere, a nascondersi, a indossare una maschera, perché sentono che se sono tristi o arrabbiati sono difettosi, non vanno bene.

Aiutiamoli invece a riconoscere e ad accogliere queste emozioni a volte così perturbanti: “Ci credo bene che sei arrabbiato, proviamo a trovare una soluzione?” oppure “lo so che avresti tanto voluto andare lì, oggi non è possibile ma un’altra volta ci organizziamo in anticipo. E comunque lo sai che anche io mi facevo dei gran pianti quando non potevo andare a trovare i miei amici?”. Ecco che il riconoscimento delle loro emozioni diventa anche svelamento, riconoscimento delle nostre e forse proprio così, mostrandoci nella nostra imperfetta emotività di esseri umani, ci sentiremo davvero vicini.

Nel percorso di scoperta delle loro emozioni, i bambini possono e devono non ignorati, non censurati, non esaltati, ma accompagnati

Una volta un bambino durante un laboratorio ha svelato di sentirsi “vulnerabile” e ragionando insieme, provando a capire cosa volesse dire questa parola strana che parla di ferite, abbiamo capito che a volte, quando ci sentiamo feriti, abbiamo la possibilità di creare legami ancora più forti con gli altri. Ma questo può accadere solo se le nostre ferite sono accolte così come sono – e se ci pensate, con il corpo facciamo proprio così! Se mi faccio male non “giudico” la ferita, me ne occupo.

E allora occupiamoci delle nostre emozioni e di quelle dei nostri bambini, stiamo con loro in questa cura. Per concludere, due poesie scritte da bambini durante i laboratori tenuti dalla poetessa Chandra Livia Candiani nelle classi di scuola elementare della periferia milanese tratte dal libro Ma dove sono le parole?, Effigie editore.

Willi, dieci anni

Io sono stonato
e la mia anima si si si sissi sissi sissi vuole carezza
la mia morbida anima.

Luka, dieci anni, albanese

Il nove luglio nacque il rumore
che faceva molta confusione
con movimento e paura,
l’incertezza eccola qua
sono io.

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