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“Il sole non era ancora sorto, ma l’enorme distesa sulla quale un tempo sorgeva una delle più importanti province dell’Impero Romano era finalmente visibile. Quelle che al buio mi sembravano comuni rocce o pietre, erano in realtà colonne, capitelli o mattoni appartenenti a chissà quale meraviglia del passato. Ciò che prima non riuscivo a cogliere per l’assenza di luce, ora si palesava davanti ai miei occhi ed era spettacolare. I primi raggi del sole che si preparava a sorgere, svelavano maestosi templi ed eleganti vie colonnate“.
Così Elisabetta Frega – la travel blogger la cui storia vi abbiamo raccontato qui – descrive com’era il sito archeologico di Palmira nel suo libro La luna sorride a Damasco. La città siriana, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ha custodito per secoli preziose rovine del periodo greco-romano e dell’era pre-islamica, ma dopo l’assedio durato circa dieci mesi dei miliziani Isis, non tornerà mai più ciò che era un tempo.
Ecco perché Elisabetta ha sentito l’esigenza di trascrivere su carta tutti i ricordi della Siria del periodo pre-conflitto: per non perderne la memoria e per condividerli con chi non ha avuto il privilegio di visitarla prima del 2011. Ho voluto approfondire l’argomento con lei, provando a sviscerare gli aspetti correlati al viaggio e alla cultura del luogo e cercando di scoprire com’è cambiato il Paese oggi.
Com’era la situazione sociale e culturale a Damasco prima del conflitto?
La Siria, prima del 2011, era un Paese che ogni anno attirava tantissimi turisti per i siti archeologici come Palmira, dal valore storico-artistico unico al mondo. A Damasco poi vivevano numerosi studenti universitari stranieri, tedeschi, italiani, americani, francesi e il bello era proprio confrontarsi quotidianamente con persone di tutto il mondo. Anche per questo il popolo siriano, abituato al costante viavai per le strade della città, s’è sempre dimostrato interessato a conoscere le storie di tutte quelle persone provenienti da Paesi diversi.
Ho anche un bell’aneddoto legato a questo aspetto. A me quando viaggio piace molto girare per i mercati delle varie città. A Damasco quando andavo a fare spese mi fermavo sempre a parlare con i commercianti, un po’ perché mi piace e un po’ per praticare la lingua: volevano sapere da dove venivo, la mia storia, com’era l’Italia, perché mi trovavo lì. Una grande accoglienza che mi è rimasta dentro. Se poi chiedevi informazioni durante l’ora di pranzo o del the, ti invitavano a sederti con loro e si offendevano se non restavi! E pur avendo girato tanto, una tale ospitalità, così spontanea, sincera e gratuita, non l’ho trovata in altri luoghi del mondo.
Qual è stata la tua prima impressione una volta arrivata in Siria?
La prima cosa che mi ha stupito è stata la serena convivenza di persone di diverse religioni. Dopo l’11 settembre del Medio-Oriente si è parlato per lo più in modo molto negativo, quantomeno sui principali canali di stampa. Nel 2008 quindi, ai miei primi approcci allo studio di questa cultura, sono rimasta piacevolmente colpita da questa pacifica convivenza: all’interno della stessa città c’erano sia chiese che moschee che sinagoghe. E andavano tutti d’accordo. La guerra tra religioni non è mai voluta dall’essere umano, ci sono ben altri meccanismi dietro. E la dimostrazione l’ho avuta davanti agli occhi: il dialogo tra religioni è possibile, a differenza di quanto ci vogliono far pensare i media.
Mi ricordo per esempio il monastero di Deir Mar Musa, in mezzo al deserto, gestito da un gesuita, padre Paolo dall’Oglio, che ne tirava le fila dal 1982 per inseguire il sogno di costruire un luogo dove persone di culture e religioni differenti potessero condividere momenti della vita in pace e armonia. Lì ho visto pregare nello stesso posto persone di diverse religioni: un’esperienza bellissima [l’uomo purtroppo è stato rapito dall’ISIS nel 2013 e da allora non se ne hanno più notizie, ndr].
La rete è stata uno dei mezzi di comunicazione e organizzazione durante le rivolte del 2011. Tu cosa ricordi di quei giorni?
C’era una grandissima confusione. Ricordo bene però i “giornalisti” mandati in Siria per scrivere e pubblicare notizie false. Un giorno mia mamma mi telefonò preoccupatissima dopo aver letto un articolo su un presunto attentato avvenuto all’interno della principale moschea di Damasco: io in quel momento mi trovavo proprio lì e non era accaduto nulla. Leggendo poi la notizia, vidi che l’immagine che corredava il pezzo non era una foto scattata a Damasco, ma un’immagine della capitale dello Yemen. Le notizie che arrivavano in Italia non sempre erano veritiere e tutto questo contribuiva a generare caos.
Nei weekend – in Siria i giorni di festa sono il venerdì e il sabato – in quel periodo veniva sospesa la connessione internet e ricordo anche una sorta di coprifuoco: era infatti sconsigliabile entrare nelle moschee nei fine settimana e girava la voce, visto che sembrava che i problemi venissero da fuori, che i maggiori rischi riguardassero i turisti o comunque gli stranieri presenti in Siria. Per questo io e le mie coinquiline ci limitavamo a uscire per fare la spesa e poco altro in quelle settimane.
In questi undici anni moltissime cose sono cambiate e tu in qualche modo custodivi dentro di te dei ricordi preziosi che hai deciso di condividere nel tuo libro. Che messaggio si legge tra le righe?
Quando è scoppiata la guerra e ho visto quello che è successo ad Aleppo, a Palmira e anche tutti i danni sul piano umanitario, da una parte mi sono resa conto che avevo avuto il privilegio di visitare quei luoghi, in cui mi ero sentita così calorosamente accolta e che oggi non ci sono più, e dall’altra sentivo il dovere di raccontare com’era la Siria prima. Il messaggio che voglio trasmettere ai lettori è che bisogna cercare di non limitarsi a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ossia dei media. Io nella bontà delle persone ci credo e questo libro è il mio modo per rendere omaggio alla Siria e non dimenticarla.
Chi vive nella Siria di oggi, dopo undici anni di guerra? Sei riuscita a mantenere i contatti con le persone conosciute durante il tuo periodo di studio a Damasco?
Con alcune persone ho perso i contatti, con altre li mantengo ancora: c’è chi ha lasciato il Paese per trasferirsi negli Emirati Arabi, in Germania o in Libano. È stato un grosso sollievo per me sapere che tutti coloro con cui ho più legato stanno bene. Non ti nascondo però che vorrei tornare in Siria: è come se sentissi il bisogno di chiudere il cerchio, vedere com’è diventata e provare a incontrare le persone che ho conosciuto e di cui ho perso le tracce, cercarle e vedere se ci sono ancora.
Durante la presentazione del mio libro al TTG di Rimini, a metà ottobre, alla rassegna “Viaggi fuori dalla comfort zone nei mondi che erano” sono entrata in contatto con una ragazza che ha fatto un viaggio in Siria di recente, Lucia Bonizzato di Viaggiandoacolori: lei mi ha raccontato molte cose su com’è la Siria ora e soprattutto sui siriani, che nonostante le atrocità che hanno vissuto e stanno vivendo – perché sulla carta la guerra non è ancora finita – sono rimasti umani, ospitali come sono sempre stati. Tutto il male che hanno ricevuto non li ha incattiviti e questa per me è una cosa bellissima.
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