Da principessa “vittima e passiva” ad autrice della mia vita: una storia di tante donne
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Stanca di aspettare che arrivasse un principe a salvarla, la principessa raccolse il suo coraggio, impugnò la spada e andò dritta verso il drago per ucciderlo.
“Non ho più paura di te!” gli gridò, anche se dentro di sé tremava.
Il drago la guardò negli occhi stupito e le disse: “Non c’è davvero alcun bisogno di essere violenti. Io non ti ho detto di rimanere, anzi, mi sono sempre chiesto perché rimanessi così a lungo”.
“Bene allora” rispose la principessa, in grande imbarazzo. E non appena si allontanò dalla tana del drago realizzò che ciò che l’aveva davvero imprigionata erano le sue paure e l’attesa che qualcuno si facesse avanti per salvarla, mentre lei stessa avrebbe potuto salvarsi da sola in qualsiasi momento.1
È così che mi sono sentita qualche anno fa quando decisi di uscire dalla torre del mio castello. Sono stata convinta fin da bambina che il mio corpo, la mia mente e l’intera mia esistenza potessero continuare a esistere esclusivamente in funzione di qualcuno di esterno a me, che aveva il grande potere di decidere del mio destino. Per anni infatti mi sono sentita appartenere a qualcuno o qualcosa che avrebbe potuto, in ogni secondo, da un momento all’altro, scegliere di porre fine alla mia vita senza tra l’altro avere io alcun diritto di parola in tale decisione.
E così per sopravvivere decisi inconsapevolmente che dovevo essere accettata a ogni costo, per riuscire ad avere maggiori possibilità che quel fatidico momento arrivasse il più tardi possibile. Trasformai le definizioni di “bella” e “brava ragazza” in costanti di perfezionismo e in ancore di sopravvivenza: per piacere ed essere accettata avrei dovuto perseguire uno standard di bellezza impostami e tacere, accettando tutto ciò che mi veniva richiesto dall’esterno. E allora, che così fosse. Non vedevo alternative: traumi e catene infantili avevano lasciato convinzioni dentro di me che non riuscivo a vedere, né tanto meno a mettere in discussione.
E così, invece di scegliere, permisi per molti anni che qualcun altro scegliesse per me e che mi scegliesse, trasportata e mostrata come preda di caccia da famigliari, colleghi, capi e amici, cercavo a tutti i costi di essere all’altezza e non deludere le loro aspettative. Il silenzio e la mia assenza mi costarono un prezzo alto: per anni ho lottato con una depressione che non si decideva a lasciarmi andare. Spesso una sensazione di vuoto, di non esistere, mi pervadeva il petto, lasciandomi una convinzione profonda di essere invisibile, non reale, non viva. Pertanto perché continuare a vivere?
Ogni sconfitta, delusione, sofferenza che la vita mi proponeva la vivevo con un senso di colpa smisurato che anticipava addirittura, in alcuni casi, l’epilogo dell’accaduto stesso. Nella mia responsabilità totalizzante nei confronti di ogni avvenimento non positivo, in realtà, in fondo, non mi sentivo però mai davvero responsabile di nulla. Se niente da me era dipeso, non avendo possibilità di scelta, allora bastava che facessi finta di nulla, tornando nella mia invisibilità e tutto sarebbe tornato a posto, come prima.
Per molto tempo non mi sono sentita essere abbastanza: abbastanza bella, formosa, alta, intelligente, simpatica. Abbastanza meritevole di vivere in questo mondo e di essere vista, riconosciuta e amata. Le donne che conoscevo dai cartoni animati imparati a memoria nella mia infanzia e in ambiti lavorativi negli anni a seguire mi mostravano sempre e solo due modelli possibili: da una parte la principessa bella e fragile che non figurava mai tra le protagoniste principali delle storie raccontate, dall’altra donne che avevano coperto con strati di invidia, aggressività e rancori le loro ferite.
Le prime erano spesso sottomesse e tristi. Le seconde puttane e stronze. E io chi tra le due ero? La seconda per indole non riuscivo a interpretarla in maniera credibile e così, per mancanza di alternative valide, continuai a scegliere in modo rassegnato la prima.
Poi qualcosa iniziò a cambiare. Non ricordo in quale momento, mese, anno, aprii gli occhi. Non fu un’illuminazione istantanea a cambiare le cose, più un lento ma costante processo. Intorno ai miei 25/28 anni iniziai così pian piano a mettere in discussione molte delle cose che mi erano state raccontate sul mio conto. Iniziai a guardarmi meglio, attraverso occhi meno giudicanti e spietati. Conobbi nuove persone, nuove donne che in ambiti diversi avevano creato aziende all’avanguardia, portavano avanti progetti meravigliosi.
Erano donne vere, forti, coraggiose, che non si erano rassegnate alla narrazione che qualcun altro aveva creato per loro. Erano donne diverse da me e da molte altre donne che avevo conosciuto fino ad allora: avevano abbandonato le panchine e giocavano in campo la partita della loro vita. Erano passate da essere personaggi secondari a protagoniste principali. Non si accontentavano di avere solo due modelli da perseguire (o stronze o vittime) e avevano creato loro stesse un loro personale modello di essere donne, femmine, esseri consapevoli in questo mondo.
E così senza rendermene conto iniziai a cambiare, a sperimentarmi verso una nuova me che ancora non conoscevo all’ora e che non conosco ancora fino in fondo neanche oggi, ma che passo dopo passo è sempre più vicina. Con il tempo ho scoperto poi che molte altre donne erano passate prima di me da percorsi più o meno simili. Non ero sola. La sensazione di oppressione e vuoto erano state provate da molte nei decenni e secoli scorsi e, in molti casi, in maniera più profonda e dolorosa di me.
E la conferma ultima è arrivata pochi giorni fa da un libro letto d’un fiato: Cattive ragazze di Maria Hesse, che ripercorre le storie di tantissime donne che prima di me e di noi hanno dovuto affrontare i limiti di un patriarcato spudorato e spietato, lottando per una libertà di scelta ed espressione di sé stesse che troppo spesso ha avuto prezzi da pagare troppo alti: ripudiate, maltrattate, violentate, emarginate e spesso uccise dalle mani dei loro stessi padri, mariti, figli.
Una narrazione lunga secoli che ripercorre una storia tra miti e realtà, tra favole e storie di vita di giovani donne che hanno pronunciato a voce alta il loro “no”. E ripercorrendo tutti i loro rifiuti, le mie ferite interne ancora scoperte si rimarginano e lasciano spazio a un’immensa gratitudine verso chi mi ha preceduta, che con tanto coraggio ha voluto non cedere ai ricatti, soprusi e violenze subite. Gli epiloghi delle storie sono spesso tristi, ma ciò che ne è conseguito ha portato oggi a una possibilità di scelta, a una libertà di poter essere e avere ciò che voglio e vogliamo.
“Abbiamo iniziato a cambiare l’indole di quei racconti di principesse passive e crudeli matrigne, cattive madri e donne fatali, pazze rinchiuse in soffitta e perfette gregarie. Dobbiamo assorbire, fare nostra l’idea della realtà di un mondo femminile molto più vasto di quello a cui hanno cercato di ridurci. Chiediamo di trovare diversi referenti e pretendiamo di essere ascoltate, di poter creare le nostre storie e la nostra vita, di partecipare su un piano di parità al mondo in cui viviamo“.
“E se quelle storie turbano e disturbano, pazienza, perché non abbiamo nessuna intenzione di rinchiuderci in una torre: è arrivato il momento di ascoltare, parlare e occupare gli spazi che ci sono sempre stati negati”2. E non solo in quanto donne, bensì esseri umani che vivono in questo mondo, andando oltre alla differenza di genere, di colore della pelle, orientamento sessuale, provenienza sociale o nazionale. Andando oltre alle razze, che siano esse animali, vegetali o umane. La vita è una e va onorata e rispettata indipendentemente da tutto, perché nessuno e nulla può decidere e scegliere per altri.
Un giorno, in un ristorante in India, mi voltai e lessi sul muro dietro di me una scritta che copriva l’intera parete: “L’unica vera religione è il rispetto per ogni essere vivente” e non si può rispettare e onorare le altre vite in questo mondo, se prima non abbiamo imparato a farlo con noi stesse.
E io? Cercando giorno dopo giorno di conoscermi e capire chi sono, sono giunta per ora alla conclusione che la principessa bella e fragile vive ancora dentro di me, ma a differenza del passato non è più sola: oggi so di possedere il coraggio del principe salvifico, la forza esplosiva del fuoco del drago, la capacità di svettare verso il cielo della torre tanto quanto quella degli alberi che circondano la fortezza di radicarsi a terra. Possiedo la possibilità di essere inespugnabile come i muri solidi di pietra e la flessibilità della bandiera che svetta in cima all’asta e cambia direzione guidata dal vento.
Ma soprattutto, so di essere perfettamente imperfetta, come ogni favola che si rispetti. E così non mi accontento più di essere un solo personaggio: sono l’intera storia (e forse più di una) al completo e la sua autrice, il cui finale è ancora da scrivere e ora so per certo che sarò io a farlo.
1 – La Principessa che credeva nelle Favole. Come liberarsi del proprio Principe Azzurro di Marcia Grad Powers
2 – Cattive ragazze di Maria Hesse
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