26 Ott 2022

Mina, con Operazione Colomba nei campi profughi: “Più che chiederci dov’è Dio, dovremmo chiederci dov’è l’uomo”

Scritto da: Angela Giannandrea

Mina è volontaria di Operazione Colomba nel campo profughi di Elonas, in Grecia. L'abbiamo incontrata per farci raccontare cosa vuol dire lavorare sul campo, sbirciando oltre il velo delle composte politiche migratorie europee e toccando con mano le storie, le anime, i volti delle persone giunte nel nostro continente con la speranza di un domani migliore, spesso trovando solo indifferenza o addirittura ostilità.

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Il 25 giungo 1992 due obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII partono su una vecchia 127 bianca per la ex Jugoslavia in piena guerra per vivere concretamente la non violenza in zone belliche. Dalla loro esperienza prende forma Operazione Colomba, il Corpo Non Violento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Attualmente volontari e obiettori di coscienza – oltre 2000 persone – operano in giro per il mondo, in quelle zone protagoniste di conflitti – Balcani, Africa, America Latina, Caucaso, Medio ed Estremo Oriente e di recente l’Ucraina. Chi va in missione viene adeguatamente formato e informato. È soggetto a rischi e disagi esattamente come i civili indifesi.

Il loro è un invito alla solidarietà e al cambiamento pacifico e costruttivo attraverso azioni non violente e di presenza internazionale. In tutti questi anni sono stati curati i rapporti con organismi e istituzioni nazionali e internazionali. Sono state presentate all’UE anche molte proposte di riforma per una differente gestione dell’asilo e delle migrazioni per la salvaguardia dei Diritti Umani. Le istituzioni europee hanno il dovere di combattere la povertà e le disuguaglianze e di proteggere i più deboli. Non solo sulla carta, ma concretamente! Non si può restare indifferenti davanti a tali orrori anche se avvengono al di là dei confini europei.

Ho incontrato Mina, una giovane volontaria, di stanza in Grecia, ad Atene. È rientrata in Italia per una decina di giorni. Vado a salutarla e le chiedo di raccontarmi della sua esperienza diretta a contatto con i migranti. È un bellissimo pomeriggio autunnale. Ci dirigiamo nel cortile della sua piccola casa indipendente che, quando non è in missione, condivide con le altre volontarie e ospiti della Comunità. «Ho l’anima bucata», mi dice. «Ciò che ho visto lì con i miei occhi e ciò che ho sentito con le mie orecchie è qualcosa di davvero crudele». Le sue parole, il suo sguardo risuonano come una pugnalata invisibile nello stomaco. Una sorta di grido silenzioso per un senso di impotenza verso una disumanità inaccettabile.

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Il suo racconto prosegue: «Quando ho deciso di partire non avevo alcuna aspettativa. Sono arrivata a Lesbo senza un motivo particolare, se non quello di aiutare il prossimo. Il mio bisogno di andare via, ad oggi, ha una risposta. Un conto è sentir parlare di migranti e rifugiati e un conto è viverlo. Sono persone che non hanno nulla. Non sono riconosciute come esseri umani. Sono sole, in difficoltà. Non hanno amici. Siamo noi volontari che andiamo lì. Siamo noi i loro amici. La lingua non rappresenta un problema. Solitamente dialoghiamo in inglese o, molto spesso, comunichiamo a gesti».

Mina racconta di una volta è stata ospite di una famiglia di rifugiati che alloggiavano nel campo: «C’erano curdi, siriani, palestinesi, italiani. Eravamo tutti in una stanza. Io e l’altro volontario non capivamo una parola, ma ci siamo sentiti piacevolmente a casa. Stare lì con loro e comunicarci l’un l’altro che, dove mangio io, mangi anche tu, crea relazione. Quello che vivi tu, ho deciso di viverlo anch’io per scelta. Io ti sono accanto. Ed è questa che fa la differenza. Questo è il motivo per cui io sono ancora lì nonostante le difficoltà. E loro ti sono grati per sempre».

«E che dire dei giovanissimi volontari con cui condivido questa meravigliosa esperienza?», aggiunge rivolgendo un pensiero ai compagni di viaggio. «Li guardo con gli occhi che mi brillano. Sono meravigliosi. Loro portano la freschezza. Sono genuini. Sono ragazzi che lasciano casa e si cimentano in queste esperienze con sacrificio. C’è chi lavora per potersi permettere di fare il volontario per un periodo di media o lunga durata. Non sono inseriti in una comunità come lo sono io. Non sono all’interno di una scelta di vita come la mia. Lo fanno perché, in quel momento, hanno voglia di essere utili per qualcuno, perché credono nei diritti umani e nel loro rispetto».

Il fenomeno delle migrazioni pone un interrogativo urgente. L’Europa ha davvero l’intenzione di agire in vista di un progetto di pace per tutti coloro che cercano di scappare da situazioni di guerre, dittature e persecuzioni? È davvero garante dei Diritti Umani? Lo chiedo a Mina che mi rimanda un tassativo «no, assolutamente no». E me lo dice dispiaciuta, delusa. Mi conferma che c’è tanto ancora da fare concretamente. L’UE finanzia milioni di euro per la costruzione di centri di accoglienza che, come lei stessa dice, sono in realtà dei veri e propri campi di detenzione.

È triste scappare dalla propria Terra per cercare salvezza altrove e poi ritrovarsi a vivere in condizioni pessime come se fossero colpevoli di chissà quali reati. E invece la loro unica colpa è quella di essere nati e vissuti nella parte sbagliata del mondo. «Abbiamo deciso fin dall’inizio di non entrare nel campo come fanno le altre Ong perché significa registrarsi e passare al Governo tutte le informazioni personali. Noi siamo contro questa prassi anche per il rispetto della persona. Tante volte andiamo e sostiamo per ore all’esterno. Quando vediamo che ci sono persone lì fuori, ci avviciniamo e offriamo il nostro supporto. Il passaparola è determinante. Tanti di loro poi ci chiamano e ci chiedono aiuto. Da quel contatto inizia la relazione di fiducia e amicizia».

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Sanno che possono contare su qualcuno che è lì per scelta, per aiutarli con il solo interesse di fare il loro bene. «Tu volontario diventi la persona che ha scelto di essere lì. Tu diventi il suo amico. lo sento molto forte tutto ciò», incalza Mina. «Si crea un’unione fortissima. Sento di non poter tradire questa relazione. Se posso scegliere di non tradire questo legame, scelgo di stare con loro. Io ho la possibilità di scegliere. Loro, purtroppo, no».

Attualmente Mina e altri volontari di Operazione Colomba sono ad Atene. Alloggiano in un appartamento utilizzato come base. Lo scorso anno erano a Lesbo dove c’erano circa trentamila migranti molti dei quali sono stati costretti con la forza ad andare via dal campo. «Una volta al mese però ritorniamo a Lesbo. Non abbiamo una giornata tipo perché sono modulate in base ai bisogni delle persone. Noi nel campo ci entriamo quando riusciamo a trovare un compromesso con le guardie o in qualità di amici di alcune famiglie che vivono lì».

Dipende molto dai militari che ci sono: «L’ultima volta per esempio non ci hanno fatto stare neppure vicino al parcheggio con le famiglie amiche. Ci hanno detto che se noi volevamo stare insieme saremmo dovuti andare via da li, ma quella è casa loro! Nonostante il degrado che si respira all’interno, quel campo è casa loro. Sono veri e propri campi di detenzione. Manca tutto nonostante le autorità stiano facendo molto per rendere il campo vivibile. Ai rifugiati manca la libertà».

All’inizio i campi sono stati tirati su all’improvviso perché la Grecia non si aspettava un flusso così intenso. Rispetto all’inizio le cose sono migliorate anche se si tratta sempre di container. Ad Atene l’estate bruci e l’inverno congeli. l bagni e le docce sono in comune. «Il cibo? No comment! Lo abbiamo visto con i nostri occhi: aprivano le confezioni del cibo e trovavano vermi o pollo crudo con il sangue. Poi dicono che i migranti non vogliono mangiare, ma neanche i cani mangerebbero così». Non sono garantiti servizi sanitari e, se si fa affidamento a supporti esterni , questi sono tutt’ altro che tempestivi.

«Quando sono arrivata la prima volta, ci ha contattati una ragazza di 19 anni che aveva bisogno di aiuto. Abbiamo visto che aveva il pancione. Lei non è incinta, ma ha dei fibromi e sta così da tanto tempo. Sono tre mesi che stiamo combattendo contro il sistema. Siamo riusciti a farle fare gli esami ma nessun ospedale vuole operarla e stiamo combattendo ancora. Medici senza frontiere fa un primo controllo, ma poi ci vuole la sanità che è assente. Ci sono stati dei corridoi umanitari grazie alla Comunità di Sant’Egidio e noi siamo riusciti anche a segnalare dei casi gravi come quelli della ragazza».

A oggi non ci sono corridoi umanitari e molti migranti malati rischiano di morire. «Noi volontari, in un certo senso, siamo fortunati perché siamo dalla parte vera del mondo e non dalla parte dove le cose ci vengono raccontate. Noi siamo lì dove le cose succedono. Io non avrei mai immaginato che in Europa potessero consumarsi queste ingiustizie. Ultimamente l’UE ha stanziato ulteriori milioni per la costruzione di altri campi, ma i migranti che fuggono dalla guerra necessitano di altro! Sono persone che hanno bisogno di essere libere. Che male hanno fatto? Questi sono dei veri e propri campi di detenzione e non di accoglienza. E vengono visti dall’UE, addirittura, come modelli!».

Se da una parte abbiamo la sensazione che non serviamo a nulla, dall’altra c’è chi dice “voi siete miei amici”

Un modello che ha migliaia di persone innocenti sotto controllo, private della loro libertà e dignità, «un sistema molto crudele. In questi mesi hanno deciso di chiudere Eleonas, l’unico campo più vicino alla capitale Atene, attuando i trasferimenti in campi molto distanti dai centri abitati». E così i rifugiati diventano gli invisibili, lontano da tutto e da tutti e privati di qualsiasi diritto, confort, dignità. Questi sgomberi sono stati fatti anche in modo molto violento. Chi protesta rischia l’annullamento della propria domanda di asilo. C’è un Collettivo di Solidarietà con i migranti molto attivo sul territorio e direttamente coinvolto nella denuncia delle violazioni da parte dello Stato greco dei Diritti dei richiedenti asilo.

«I volontari di Operazione Colomba, ma anche altri europei, sono stati vicini a loro notte e giorno per evitare che si usasse violenza. Nonostante fossero lì in modo pacifico, i soldati sono diventati molto agguerriti. Cinque volontari internazionali sono stati arrestati, tra cui un italiano. Hanno passato una notte in prigione. Sono volontari che ogni giorno rischiano la vita perché credono nei diritti umani. Sono persone che hanno diritto come noi alla libertà, ad una vita normale. Sentire le loro storie è toccante».

Ascoltare ciò che hanno già dovuto affrontare per lasciare la loro vita che aveva almeno una parvenza di normalità, è triste. A causa della guerra sono stati costretti a spostarsi in Libano in campi di accoglienza dove ci sono solo tende. Molti tentano la fortuna di arrivare in Europa. Un viaggio che è già molto violento per loro. Quando salutano le loro famiglie, i loro cari, la loro terra sanno che non li rivedranno più. E questo è già un trauma silenzioso per molti. Una ferita nell’anima. Loro non avranno più la possibilità di rivederli. I media e i Governi hanno la loro responsabilità.

«Abbiamo perso di vista che si tratta di esseri umani. Abbiamo perso l’umanità. Questa situazione è molto controllata dai media, dai Governi. Si tratta di una differenza che abbiamo visto con la guerra in Ucraina, dove il Governo ha fatto credere che gli ucraini siano i veri bisognosi, come se fossero solo loro le vere persone che scappano dalla guerra invece gli altri no. Per loro si sono trovate soluzioni. Sono arrivati in Europa con una possibilità diversa anche rispetto ai documenti. Per gli altri migranti non c’è questa facilitazione eppure anche loro scappano dalla guerra. L’UE non ha nessun interesse per quelle terre lì per cui non ha nessun interesse per quei popoli come esseri umani. Noi ci sentiamo impotenti. Io ho vissuto momenti di crisi».

Mina va avanti parlando di Operazione Colomba: «È un progetto molto bello, ma anche molto frustrante perché non sei in grado di aiutare quelle persone, di farle uscire da lì, di trovarle una casa. Io vivo l’imbarazzo e la vergogna di dire che sono europea. Io ho un passaporto e sono libera di andare e venire come voglio, ma non ho nessun potere di aiutare. È una cosa forte. Quando si presenta davanti una famiglia di cinque persone. Padre e madre giovanissimi con tre figli piccoli e ti chiedono aiuto perché lei è malata di cancro».

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Lesbo, in Grecia

Due sono le soluzioni: o vivono in strada o al campo. Lì però non vogliono ritornare e magari, essendo casi vulnerabili, il Governo li ributta via per strada. «E ti chiedono aiuto, lo implorano, e io ho l’anima bucata. Non posso fare nulla. Tante volte mi sono detta “cosa ci faccio qui se non sono in grado di mettere in salvo nessuno?”. Ma la risposta arriva quando, per esempio, il mio amico congolese mi dice: “Da quando ci sei tu, da quando ci siete voi io sento che conto per qualcuno”. Quindi se da una parte abbiamo la sensazione che non serviamo a nulla, dall’altra c’è chi dice “voi siete miei amici, mi date un abbraccio, mi chiedete come sto, mi invitate a casa, mi fate vivere la normalità”».

In tali situazioni, viene spontaneo chiedersi: “Ma Dio dov’è? È possibile che permette tutto ciò?”. Mina invece mi risponde con un’altra domanda: «Più che chiedersi Dio dov’è, bisognerebbe chiedersi dov’è l’uomo. È la cosa più facile prendersela con Dio. Se non ci sono interessi che possono tornare indietro, l’essere umano non esiste. Sono tutti numeri e neanche quelli perché molti migranti non sono registrati come è il caso dei minori non accompagnati».

Ci sono tante persone depresse, rassegnate all’interno dei campi perché non hanno più la speranza. «Spesso ho pensato che quando una persona arriva a vivere rassegnato è solo un morto che cammina. I media hanno la responsabilità di fomentare forme di razzismo, trasmettono l’idea che i centri di accoglienza siano un ottimo rimedio perché almeno si riesce a tenerli a bada come se fossero dei criminali. E invece sono solo esseri umani che scappano dalla guerra».

Per concludere chiedo a Mina quale sia la sua idea di futuro. E lei apre spazio ad una riflessione molto attuale: «Io penso che dobbiamo stare attenti perché, per come stanno andando le cose, potrebbe toccare anche a noi». Dopo qualche secondo di silenzio, ci siamo guardate negli occhi, velatamente lucidi, e ci siamo congedate con un abbraccio di speranza, nonostante tutto. Altre parole sarebbero state inutili.

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