L’antropologa Laura Di Pasquale racconta l’incidente che le ha cambiato la vita: “Il mio consiglio è darsi da fare”
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Roma, Lazio - «Chi sono? È una bella domanda! Ed è anche parte del titolo del mio progetto di ricerca del Dottorato in Antropologia e Media Visuali presso l’Università di Manchester. Io, come molte, sono una che cambia spesso e molto». Comincia così a presentare sé stessa Laura Di Pasquale, antropologa siciliana che vive a Roma e fa un dottorato a Manchester, protagonista di questa nuova puntata di Moderne Persefone.
Ma chi è davvero Laura l’ha capito dopo un grave incidente stradale nel 2005 a cui sono seguiti un coma, un lungo percorso di riabilitazione fisico e, in un secondo tempo, un grande cambiamento sul piano psicologico. «I cambiamenti esistenziali, piccoli e grandi sono avvenuti in varie direzioni e in tempi diversi. A tratti li ho temuti, altre volte ne ho preso consapevolezza solo molto dopo tempo. Oggi, a molti anni di distanza, vissuti prevalentemente Roma, ho iniziato un dottorato all’Università di Manchester. Mi sto occupando dell’esperienza del trauma cranico come life-changingevent, ovvero come evento traumatico che può trasformare modi di essere al mondo e di conoscere il mondo».
Che storia incredibile. Ma raccontaci meglio di te, delle tue passioni e del tuo cambiamento dopo l’incidente.
Nel 2005, quando avevo 27 anni, la mia vita ha subito una brusca trasformazione dovuta a un grave incidente: sono stata investita da una moto e ho riportato un trauma cranico con coma e varie fratture. Ho trascorso due mesi in ospedale, di cui ho solo qualche ricordo sfocato. Poi due mesi in una clinica di riabilitazione per proseguire una riabilitazione fisica per più di diciotto mesi. Una volta riabilitata fisicamente ho avuto bisogno di una riabilitazione cognitiva e in seguito psicologica. L’elaborazione e la riflessione su quell’evento, sul confronto con la malattia e con la contingenza dell’essere – e del non essere – è un processo lungo che continua ancora.
Come prosegue il tuo percorso dopo la riabilitazione fisica e quanto le tue passioni ti hanno aiutato nell’andare avanti?
Durante e dopo il percorso di riabilitazione fisica ho trovato la “scusa”, la spinta e anche il tempo di sperimentarmi in forme espressive varie, che avevo coltivato in passato, ma che avevo accantonato, come il teatro corporeo, lo yoga, la recitazione, la fotografia. In particolare i documentari e le storie del reale erano una delle mie vecchie passioni. Infatti mi ero già cimentata nella produzione e nel 2009 mi sono finalmente iscritta a un mini corso di regia di documentari.
Vivevo in Toscana in quel periodo e, come lavoro di fine corso, ho seguito le interazioni tra persone cinesi e italiane in un parco di Prato. Mentre osservavo, ho scoperto che molte di loro, soprattutto la mattina, facevano giri del parco camminando all’ indietro. Quello È diventato il filo conduttore del primo documentario Camminare all’indietro in via Colombo. Nel 2010 È stato proiettato in un cinema di Roma, a Trastevere, all’ interno di un festival e addirittura premiato. È da qual momento che questa passione ha preso più spazio.
Dopo l’incidente quali scelte hai compiuto e quale impatto hanno avuto su di te?
È una domanda molto bella. Sto facendo un dottorato su questo tema, su come dopo eventi traumatici persone diverse negozino il rapporto con il loro corpo, il senso di sé, le relazioni sociali, le loro idee sull’essere al mondo, anche morali e religiose, e l’immaginazione. Per quanto mi riguarda, la risposta che potrei darti oggi è molto diversa dalla risposta che avrei dato dieci anni fa e credo che la lettura della mia esperienza cambierà ancora durante la ricerca.
Potrei dirti che chi sono oggi, come vivo e il mio percorso professionale e anche le mie relazioni sociali sono intrecciati con la esperienza dell’incidente e degli anni successivi. Forse grazie alle parti di me che ho conosciuto meglio in seguito all’ incidente, ho iniziato a concedermi il piacere di assecondare le mie passioni. E adesso, a dodici anni dal primo documentario, voglio lavorare a un nuovo progetto su come persone diverse ricreano le loro vite dopo un evento traumatico.
Quel “momento”, l’incidente e gli anni a seguire, lo puoi intendere come una svolta?
Le conseguenze dell’incidente mi hanno spinta in molteplici direzioni generando momenti altissimi e altri molto bassi e faticosi. L’ospedalizzazione, l’esperienza del trauma cranico e delle varie fratture con effetti e medio e lungo termine e soprattutto la loro negoziazione, hanno generato insicurezza e paura, ma anche entusiasmo e nuove consapevolezze su chi sono e cosa voglio. Dopo l’incidente credo di essermi guardata e ascoltata meglio.
Ho compreso che una parte di me tende al rifiuto del cambiamento, un’altra si lancia con impeto. Sto cercando di imparare a dar fiducia alle mie idee, al mio entusiasmo di fronte alle novità e intuizioni, ma anche ad ascoltare la mia paura, rallentando, se necessario, ma senza bloccarmi! È un work in progress, significa vivere, no?
Qual è stato il momento più “alto” dopo l’incidente?
Forse l’aver completato il mio primo documentario, perché ho portato a termine qualcosa che avevo sempre sognato di fare. E mentre una parte di me temeva di essere “meno capace” di fare dopo l’ incidente, un’ altra parte si è lanciata e così ho scoperto nuove possibilità in vari ambiti della mia vita. Ho ripreso la scrittura, la fotografia e ho capito che mi servono per stare bene. E poi sono cambiata anche nelle relazioni con le persone a me vicine: accolgo con più affetto le vulnerabilità degli altri.
Come hai trasformato il tuo trascorso traumatico nell’argomento di ricerca del tuo dottorato?
È avvenuto lentamente, frutto di serendipità e incontri preziosi. Dieci anni dopo l’incidente ero in una fase di confusione esistenziale, sociale, professionale che in parte collegavo all’incidente. Avevo trasformato la morte evitata in un dovere morale. Mi dicevo che dovevo giocarmi bene la seconda possibilità e questo obbligo mi paralizzava.
Il giorno del decimo anniversario del mio incidente, la notizia della morte di un conoscente mi ha dato l’idea e la spinta a mettere in campo le mie competenze da antropologa per cercare un dialogo con persone che erano state in coma. Ho pensato che per uscire dalla palude dei mie dubbi e timori, potevo vedere come loro avevano ricreato le loro vite e magari farne un documentario, utile ad altre persone in situazioni simili.
Quali sono gli scopi della tua ricerca?
Vorrei migliorare la comprensione dell’esperienza del trauma cranico e, più in generale, di interruzione della normalità. Inoltre vorrei arricchire la scarsa letteratura etnografica sul trauma cranico, dando voce a chi lo ha sperimentato. I risultati della ricerca vorrebbero creare rappresentazioni del trauma cranico più articolate e meno stigmatizzanti. Insieme a pubblicazioni scientifiche intendo avvalermi di strumenti più divulgativi, come un documentario e una pagina web. Un altro obiettivo È offrire a personale medico, operatori sociali e coloro che supportano persone che hanno subito un trauma cranico, o altri eventi traumatici, nuovi spunti sull’ esperienza.
Cosa intendi per nuovi spunti e a cosa potrebbero portare?
Spunti che non cataloghino gli effetti organici o psicologici del trauma cranico, ma che considerino le esperienze di malattia e di interruzione della normalità in relazione alla vita e alla persona, nella sua specificità. Sarei felicissima se i risultati della ricerca – ovvero le esperienze e vite di persone diverse che hanno affrontato nei modi più diversi un trauma cranico, le loro riflessioni, espressioni, storie – potessero essere utili ad altre persone, anche solo per farle sentire meno sole nella loro esperienza di trasformazione, non cercata eppure portatrice di nuove possibilità di vita.
Cosa è cambiato dopo aver attraversato questo processo? C’è stato un cambio di prospettive?
Sì, anche perché sono trascorsi diciassette anni. Sicuramente ho imparato che non è facile guardarsi e capirsi da soli. Credo che persone con esperienze simili, con elementi in comune e anche in contrasto con la propria, ci possano aiutare a capire chi siamo. Spero di capirlo ancora meglio alla fine del progetto di ricerca e come me anche le altre persone che parteciperanno. Rispetto a me, oggi ho meno sicurezze di quante ne avessi a 27 anni, di prima dell’ incidente, ma ora capisco che il non sapere fa parte di ogni percorso di vita e così cerco di vivere anche questo con più serenità.
Cosa consiglieresti alle Moderne Persefone?
C’è un libro dell’antropologo Andrew Irving: The art of life and death, che suggerisce che l’oltretomba e la rinascita – per rimanere nel mito – spesso non sono due fasi separate, ma sono profondamente intrecciate: anche nei momenti più cupi c’è luce. Perciò consiglierei alle Moderne Persefone di vedere e apprezzare la luce, di nutrirla, anche quando appare come una flebile fiammella di qualche istante. Consiglierei a chi è in una fase di cambiamento di provare a essere e a fare ciò che desidera, anche attraverso un confronto alla pari con altre persone. E consiglierei di fare. Dandosi da fare, un cambiamento – seppure impercettibile all’inizio – avverrà e nuovi percorsi che prima non si immaginavano nemmeno emergeranno.
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