Ti mangio il cuore: la storia di una donna e della sua battaglia con la quarta mafia
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È donna la paladina di un silenzioso gesto di riscatto in un lembo di terra del sud imbruttito da logiche di potere, arcaiche e anacronistiche. Si chiama Marilena, donna istintiva, bella, semplice nella sua avvenenza. Coraggiosa e di una spregiudicatezza dai toni pacati e riflessivi. È la protagonista di una storia vera, egregiamente raccontata in Ti mangio il cuore, il nuovo lungometraggio, da standing ovation, del regista pugliese Pippo Mezzapesa, per nulla nuovo a premi e menzioni speciali, presentato a Venezia79 nella sezione Orizzonti, prodotto da Indigo film e Rai Cinema con il supporto logistico di Apulia Film Commision.
Il film è l’adattamento dell’omonimo libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini. La prima grande inchiesta sulla mafia del Gargano, la Quarta Mafia, poco narrata e conosciuta tra quelle criminali italiane, ma non meno pericolosa delle altre. Una realtà malavitosa, radicata nella parte alta della Puglia, il promontorio del Gargano. Un territorio che rievoca scenari da far west dove i criminali sembrano venire da un’epoca ormai superata in cui dominano la legge del più forte e la convinzione che il sangue si lavi con altro sangue. La terra di nessuno, abbandonata da Dio, dove il cambiamento sembra solo utopia. Una mafia efferatissima, che uccide togliendo la faccia e il ricordo, racconta Mezzapesa.
Protagoniste di una faida spietata sono due famiglie, i Camporeale e i Malatesta, che si contendono il territorio. La lotta si riaccende quando Marilena, moglie del boss dei Camporeale, diventa il sogno proibito del rampollo del clan rivale, Andrea Malatesta, erede della casata mafiosa, interpretato da un eccellente Francesco Patanè. I due sperimentano una storia d’amore clandestina, ma il tentativo di nascondersi si rivela una soluzione vana.
Marilena, già madre di due figli piccoli, viene esiliata dai Camporeale e resa prigioniera dei Malatesta. Contesa e oltraggiata da entrambi, interiormente lacerata, si opporrà, guidata da una forza materna che non trova limiti. Man mano germoglia dentro di lei il seme inaspettato di una consapevolezza, ancora tutta inconscia, di essere in una realtà che somiglia a una prigione. Ne prende coscienza in un timido e pacato crescendo di consapevolezza, che esplode all’improvviso ed è ben rappresentata nelle sequenze finali del film.
È la giovane cantante Elodie a interpretare un personaggio semplice ma al contempo complesso e di spessore. Una scelta tanto azzardata quanto perfettamente riuscita. Al suo debutto cinematografico, l’artista romana spacca lo schermo, sorprende, incanta. Mostra in modo inaspettatamente sublime l’anima di una donna, i suoi conflitti, le sue fragilità, la sua emotività ferita, ma soprattutto la voglia di non abbassare mai la testa come invece fanno le donne abituate, in certi contesti, alla sottomissione.
Sceglie la vita rischiando la morte. Non scende a compromessi. Non si adatta a certi schemi, dal sapore di una normalità che sa di amaro in un frammento di società dominata da logiche inumane in cui la famiglia, il potere, l’amore si intrecciano, si mescolano e si confondono diventando una maledizione.
Un’equipe professionale e geniale in cui regista e collaboratori tecnici si sono superati, raccontando con minuziosa meticolosità il male, nella sua banale complessità irreversibile. Lo descrive bene Hannah Arendt nel suo libro, La banalità del male: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca“.
“Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità di andare alle radici , e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicato“.
Marilena, inconsapevolmente saggia nella sua apparente e quasi elegante spregiudicatezza, in cuor suo lo sa. Si rende l’artefice di un atto coraggioso, quasi impensabile in un contesto socio culturale e ambientale come il suo. Una scelta che suona come un terremoto che scuote soprattutto la sua coscienza e cambia il futuro dei suoi figli perché è a questo che ambisce. Diventa la prima donna testimone di giustizia. Porta alla luce legami e logiche al limite del surreale, che cozzano con una modernità che corre alla velocità della luce, dove non c’è spazio per il vecchio, l’antico, l’anacronistico.
Oggi Rosa Di Fiore (Marilena nella finzione cinematografica) vive in una località segreta con i suoi tre figli, che diversamente si sarebbero fatti la guerra tra loro. Il suo gesto ultimo è rivoluzionario, istintivo, lungimirante. La prima donna pentita di mafia del Gargano. Una piccola goccia di coraggio, capace di nutrire positivamente un mare di ombre, in una parte di meridione oscuro, ambiguo, arcaico, misterioso dove la redenzione non sembra possibile. La fotografia in bianco e nero di Michele d’Attanasio è di forte impatto e comunica molto bene il contrasto che si fa spazio all’interno di una storia contemporanea, di qualcosa di profondamente antico nei sentimenti, nelle azioni, nelle scelte.
In un’Italia che vuole cambiare, la rivoluzione è anche donna. E Marilena ci dimostra che ci vogliono istinto, coraggio da vendere, resilienza, forza e una motivazione quasi soprannaturale che superi la pesante paura e sfidi la morte, una minaccia quotidianamente vicina. Marilena, senza saperlo, conduce lo spettatore alla riflessione sull’importanza di non abbassare mai la testa, perché il proprio valore e la propria dignità non si difendono con la sottomissione.
È la promotrice di un piccolo cambiamento, un seme che fa la differenza su un terreno arido dove germoglia il nulla, perché lì tutto muore prima di nascere. A guidarla nella sua scelta di ribellione non è solo la sua intelligenza e il coraggio di andare contro corrente ma anche un forte spirito materno. Vuole salvare i suoi figli e lo fa.
Bertrand Russell diceva che “il fatto che un’opinione sia ampiamente condivisa non è affatto una prova che non sia completamente assurda”. E Marilena con il suo gesto simbolo di riscatto, lo intuisce. Le opinioni dominanti nella becera realtà culturale in cui è sfortunatamente nata sono assurde e in quanto tali vanno fatte fuori non con il sangue ma con la giustizia e con qualcosa che somiglia un po’ al bene. Un bene che lei, forse, non sa ancora cosa sia, abituata a un contesto dove è il male a essere confuso con il bene.
La storia di Marilena mi ricorda Sono una donna di Joumana Haddad. Una poesia che ho piacevolmente ritrovato tra i miei contatti, qualche giorno fa, per rendere omaggio a Masha Amini, la ragazza curdo-iraniana di soli 22 anni, deceduta dopo l’arresto da parte della polizia morale, colpevole di non aver indossato il velo. Una vicenda che ha suscitato proteste in varie parti dell’Iran e non solo. Una storia che ha dell’incredibile e che si spera possa accendere davvero dei barlumi di speranza verso una cultura del cambiamento universale.
Sono parole che mi hanno toccata nel profondo e che dedico a tutte le donne che, ancora oggi, nel 2022, nonostante anni di lotte ed emancipazioni, sono ancora al centro di storie che raccontano di tentativi inconsapevoli di riscatto, cambiamento e di salvezza da realtà, che si fa fatica a comprendere e ad accettare, nonostante un ricco materiale di analisi frutto di studi sociologici, antropologici e psicologici abbia cercato di dare un senso a certe dinamiche. La dedico a tutte quelle donne che rappresentano venti di cambiamento non solo in Italia ma nel mondo intero.
Nessuno può immaginare quel che dico quando me ne sto in silenzio, chi vedo quando chiudo gli occhi, come vengo sospinta quando vengo sospinta, cosa cerco quando lascio libere le mani.
Nessuno, nessuno sa quando ho fame quando parto, quando cammino quando mi perdo, e nessuno sa, che per me andare è ritornare, e ritornare è indietreggiare, che la mia debolezza è una maschera, e la mia forza è una maschera, e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere ed io glielo lascio credere , e io avvengo.
Hanno costruito per me una gabbia, affinché la mia libertà, fosse una loro concessione, e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con loro e senza di loro, sono libera nella vittoria e nella sconfitta. La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della mia prigione è la loro lingua, ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio, e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.
Sono una donna. Credono che la mia libertà sia loro proprietà, e io glielo lascio credere e avvengo
Joumana Haddad
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