La storia di Monticchiello, il borgo rinato grazie al teatro di comunità fatto dagli abitanti
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Siena, Toscana - Quest’estate le mie vacanze sono state un viaggio, un vero e proprio viaggio che dal nord-est d’Italia ha portato me, il mio compagno e i miei due bimbi piccoli ad attraversare l’Italia fino alla Puglia. Passando per la Toscana. La nostra prima tappa è stata Monticchiello, un paesello misconosciuto in provincia di Siena, in quella valle dagli splendidi panorami che è la Val d’Orcia.
Monticchiello è un borgo molto carino ma niente di più e in un’ora si riesce tranquillamente a visitarlo tutto. Ha un moderno museo, una chiesa affrescata, una piazza, un camminamento attorno alle mura, un parco-giochi, qualche negozietto, ristoranti e bar che all’aperitivo si riempiono. Tutto arroccato e con una vista incredibile. La cosa più interessante di questo paese però non si nota subito, bisogna restarci un po’ per vederla. E io sono felicissima di averlo fatto.
Siamo seduti in una piazzetta al tavolo della taverna di Bronzone per pranzare – la nostra prima “pappa al pomodoro” –, quando un signore con barba e capelli bianchi si siede al nostro tavolo e comincia a chiacchierare con noi, senza presentarsi, ma con quell’animo tipicamente toscano a cui non puoi fare altro che sorridere. Ci indica le tovagliette di carta sotto i nostri piatti e vediamo che riportano la storia del Teatro Povero di Monticchiello.
Ecco perché siamo qui: perché la storia di questo posto è indissolubilmente legata al teatro. Quella sera stessa andiamo a vedere in piazza uno spettacolo che porta in scena più di 40 persone. Per essere precisi, si tratta dell’”Autodramma ideato, scritto e realizzato dalla gente di Monticchiello”. Bambini e ragazzi – in scena ce ne sono cinque o sei, ma scopro che ogni sera si alternano e in totale sono una ventina –, donne e uomini, anziani. Riconosco la giovane che ci ha servito al tavolo qualche ora prima, così come il ragazzo del punto informazioni o la proprietaria del negozio di vestiti più sotto…
Non pensate al classico spettacolo di teatro popolare basato su qualche testo vecchio – da me, in Veneto, va forte Carlo Goldoni ad esempio– e riproposto in tutte le salse. La cosa straordinaria è che la comunità di questo borgo lavora tutto l’inverno, con assemblee e prove, per discutere i temi da portare in scena, tutti legati all’attualità, alla storia che li attraversa e su cui, in questo modo, tutti si confrontano. Che sia il Covid, la guerra, la pace, l’isolamento, la precarietà. E con un filo rosso collegano sempre il loro passato, il presente e il futuro.
Rifiutano formatori teatrali – eppure la presenza scenica di molti di loro è altissima – e si fanno guidare da un regista di loro fiducia. Fanno tutto: le scenografie, i costumi, il testo, le proiezioni, i video. Con un’energia e un senso di partecipazione, di orgoglio e di appartenenza che mi commuove.
Grazie al teatro, Monticchiello è sopravvissuto allo spopolamento degli anni ’60, quando l’intera Italia delle aree interne veniva abbandonata per migrare verso le città, dove servizi e comodità erano già arrivati. Qui sì e no un telefono per tutti, nessuna macchina, nessuna TV.
In quegli anni restano a vivere qui quei pochi legati alla terra, che protestano. E sapete cosa fanno? Chiedono aiuto agli intellettuali. Uno risponde, si chiama Mario Guidotti, ha potere – è il responsabile dell’ufficio stampa della Camera dei Deputati e della Presidenza della Repubblica – e inizia a scrivere di loro. In casa sua si tengono le prime assemblee per decidere gli spettacoli e lui ne scrive il testo.
Questo è solo l’inizio di una storia che prosegue con prese di potere dal basso, censure, ribaltamenti – la narrazione completa si può trovare sul sito o, ancora meglio, potete farvela raccontare da qualcuno a Monticchiello. Negli anni ’80 nasce la cooperativa di comunità, che oggi è una cooperativa di servizi, gestisce il punto informativo, la taverna, e molto altro. Dà lavoro alle persone e crea opportunità di incontro. Attualmente conta 11 persone assunte, che nel periodo estivo diventano 25.
Fabio, il direttore, mi confessa: «Ci abbiamo messo un po’ a raggiungere questi numeri, ma sai, qui siamo un po’ lenti perché ogni cosa va condivisa». E dentro di me un po’ rido e un po’ mi commuovo, perché chiunque abbia provato qualche metodo decisionale partecipato sa benissimo cosa significano le sue parole.
Me ne vado felice da Monticchiello, con in tasca un’esperienza preziosa: ho sbirciato un po’ dentro una comunità, ma ho anche visto usare finalmente il teatro come mezzo per riflettere insieme sul senso e sugli ideali delle vite singole e collettive, per affrontare le trasformazioni che ci attraversano e sconvolgono il nostro mondo.
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