Irene Tamagnone: “Sono partita per il Cammino dei Ribelli per riconnettermi con me stessa”
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Alessandria - Il blu profondo delle notti senza luci artificiali e l’odore della terra umida alla mattina presto: queste sono le prime immagini sensoriali che balzano alla mente di Irene Tamagnone, la pittrice genovese con radici in val Borbera, che ad agosto ha percorso in solitaria il Cammino dei Ribelli (ve l’abbiamo presentato qui).
Io e la mia famiglia abbiamo avuto modo di ospitarla a Riva – frazione di Roccaforte Ligure – prima della partenza ad Arquata Scrivia e all’ultima tappa, supportandola e qualche volta confortandola per tutta la settimana di questa intensa esperienza. Per questo ho voluto fare due chiacchiere con lei, stavolta a freddo, per esplorare cosa ha significato insieme il cammino compiuto e cosa ha trovato una volta a casa dentro al suo zaino Invicta dei tempi delle scuole elementari.
Irene, raccontaci: perché hai scelto di intraprendere il Cammino dei Ribelli?
Tutto è nato da un momento di difficoltà personale. Mi trovavo a Cartasegna, il paese di mia nonna paterna, dove mi ero rifugiata per scappare dall’afa, dall’insofferenza della città e da diversi aspetti della mia vita che non riuscivo proprio a gestire. Da tanto tempo vedevo i cartelli del Cammino dei Ribelli per le strade del mio paesino, pensando che prima o poi mi sarebbe piaciuto farlo… ecco, poco prima di Ferragosto ho pensato che fosse finalmente arrivato il momento. E due giorni dopo sono partita.
Con che spirito sei partita e come sei tornata?
Mi stavo ripiegando su me stessa e sulle mie difficoltà. Mettermi in cammino, in modo lento e consapevole, mi ha aiutato a riconnettermi con il mio corpo, con le mie sensazioni, con il presente, con la natura intorno a me, con il mio qui e ora.
Oltre alle ciocche ai piedi e alla stanchezza cosa ti sei portata a casa?
Difficile descrivere cosa è stato per me il cammino. In quei giorni sono successe molte cose diverse, credo. Innanzitutto mi sono messa alla prova e ho affrontando le diverse tappe con dei problemi dolorosi ai piedi sin dai primi giorni: è stato bello ma ha richiesto anche un sacco di forza di volontà. Ovviamente mi sono anche persa [sorride, ndr].
È stato un percorso molto più solitario di quanto pensassi, con qualche confronto e chiacchierata più che altro al termine delle tappe, ma sono stati gli animali i miei principali compagni di viaggio. Torno a casa sapendo molto di più della resistenza partigiana: al Museo della Resistenza di Rocchetta Ligure ho conosciuto una donna fantastica e appassionata che è un’enciclopedia umana, sarei stata ad ascoltarla per ore. In quei giorni ho realizzato che la forza della valle ora è tutta al femminile e questa è stata una bella scoperta. Dopo questa esperienza ho una conoscenza decisamente più profonda di un luogo del cuore, anche solo per questo lo rifarei.
So che hai passato svariate estati della tua vita a Cartasegna: conoscevi già tutti i luoghi incontrati lungo il percorso o ne hai scoperto qualcuno?
Stare a Cartasegna per me ha sempre significato godermi la casa, i boschi che la circondano e il silenzio, interrotto solo dal rumore del torrente sotto la finestra della sala. L’auto di solito non la prendo, se non per fare la spesa nel paese vicino. Prima tanti luoghi per me erano soltanto dei nomi su cartelli stradali, conoscevo la mappa ma non il territorio. Durante il cammino, però, mi sentivo in continuazione a casa e in un posto nuovo allo stesso tempo.
Secondo la tua esperienza c’è qualcosa che miglioreresti durante le varie tappe?
Alcune parti sono ancora poco tracciate e questo penso che nel tempo andrebbe migliorato. In alcune strutture in cui ho dormito ho trovato un quadernino che raccoglie pensieri e annotazioni dei pellegrini: ecco, mi sarebbe piaciuto trovarlo sempre, perché è un medium di condivisione importante, che crea anche una sorta di staffetta emotiva.
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