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Alessandria - L’endometriosi è una patologia silenziosa. Si manifesta con dolore diffuso e costante in zona pelvica, durante le mestruazioni e spesso anche durante i rapporti e nella parte bassa della schiena e nel bacino. In Italia ne è affetto il 10/15% delle donne in età riproduttiva, ma la patologia colpisce tra il 30 e il 50% di coloro che hanno difficoltà a concepire (Fonte: Ministero della Salute). Il punto è che purtroppo la diagnosi arriva spesso dopo un lungo e faticoso iter di visite, esami e accertamenti e questo ritardo comporta gravi ripercussioni psicologiche per la donna.
Anche se di endometriosi soffrono quasi tre milioni di persone, è qualcosa che resta sott’acqua, per questo portarlo a galla è così importante. In un caldo pomeriggio di agosto, nella verde frazione di Riva di Roccaforte Ligure, in val Borbera, ho parlato proprio di endometriosi con Daniela Fiori, mia ex collega, amica e ora anche mia vicina di casa in campagna – è lei che mi ha portata in questa bellissima e selvaggia valle – che ci è passata e ne è uscita. E ora sente il bisogno di porre fine all’apnea e parlarne a più persone possibili.
Daniela, raccontaci: come e quando hai scoperto di soffrire di endometriosi?
La mia diagnosi di endometriosi risale a circa quindici anni fa: avevo trent’anni e i dolori all’addome con cui convivevo sin da ragazzina erano divenuti insopportabili, in quel periodo faticavo anche a camminare. Mi sono sottoposta a una serie di approfondimenti a 360° e, paradossalmente, il primo medico a nominarmi questa malattia durante una visita è stato un gastroenterologo. Da lì è iniziato il mio peregrinare tra i centri di ginecologia specializzati del nord Italia.
Quali sono stati i campanelli d’allarme e quanto tempo ci è voluto per ricevere la diagnosi?
I campanelli di allarme c’erano tutti sin dalla mia adolescenza: nei giorni delle mestruazioni il dolore era tale da impedirmi di muovermi, spesso ero costretta a letto. Ho sofferto sin da allora di colon irritabile, con sintomi che piano piano hanno iniziato a presentarsi nel corso di tutto il mese. Ero sempre stanca. Nei primi anni ’90 però, nessuno di questi era considerato il campanello di allarme di qualcosa. Eri una ragazza e il tuo diventare donna per tutti – medici compresi – significava automaticamente dover accettare la convivenza con il dolore. Non a caso la diagnosi è arrivata, come ti raccontavo, ben vent’anni dopo.
Come hai vissuto i vari aspetti del quotidiano e in che modo questa patologia li influenza?
Vivere con un dolore cronico influenza ogni aspetto della vita. Non c’è solo la fase acuta del dolore che questa malattia ti consegna nei giorni delle mestruazioni, in quelli di ovulazione e in diverse altre circostanze; ti abitui in realtà a sentire sempre una certa dose di male, cerchi di adattarti e quasi inavvertitamente cambi il modo di stare seduta, di correre, di muoverti, per provare meno dolore. Nel frattempo il tuo corpo lotta contro un’infiammazione diffusa che ti debilita e provoca costante stanchezza.
Agli occhi degli altri, intendo amici e amiche, compagni di vita, famigliari, datori di lavoro e colleghi, facilmente appari come una persona che non ama socializzare e divertirsi, che trascura il lavoro, che vuole mettersi al centro dell’attenzione e fare la vittima. Vivere tutto questo senza una diagnosi aumenta il tuo senso di straniamento e rende difficilissimo spiegare a chiunque come davvero ti senti.
Ora si può dire che tu ne sia finalmente uscita?
La scorsa estate ho subito due importanti interventi, a poco meno di due mesi di distanza, che hanno messo fine a questi trent’anni di dolore. Ho trascorso mesi molto difficili, credo i più difficili sin qui, ma ne è valsa la pena perché finalmente posso dire di star bene. Devo ringraziare la Ginecologia dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar a Verona, dove sono stata seguita con il massimo della professionalità e umanità e che rappresenta una delle massime eccellenze italiane ed europee nella cura dell’endometriosi severa. Da questa patologia non si guarisce mai completamente, è necessario continuare a controllarsi, ma ora sono serena perché so di essere in buone mani.
Raccontare questo percorso e in generale che cosa sia l’endometriosi è sempre faticoso, anche una volta che hai avuto la diagnosi, anche una volta che l’hai combattuta a viso aperto, perché sulla sua natura ci sono scarsa consapevolezza – quando non la totale ignoranza – e una sorta di sospetto, diffidenza o forse solo superficialità… e alla fine anche tu non hai tutta questa voglia di raccontare fatti così intimi e personali. Però l’endometriosi è comune quanto il diabete: è tempo di dirlo. Ed è tempo di saperlo.
Quanto è fondamentale fare informazione, parlare con le donne e soprattutto con le adolescenti, affinché diventino portatrici di consapevolezza per loro stesse e per le loro coetanee?
Credo sia fondamentale. Oggi non siamo più negli anni ’90, quasi tutti abbiamo almeno una volta sentito nominare questa malattia e sicuramente c’è una maggiore attenzione alla salute della donna. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. Non dobbiamo rassegnarci a convivere con il dolore. Non solo perché si tratta di un antico e distorto retaggio culturale, ma perché non riconoscere l’endometriosi significa lasciarla “lavorare” giorno dopo giorno su utero, ovaie, vescica, ureteri, reni, intestino. L’elenco degli organi interni e delle terminazioni nervose interessate dalle sue lesioni è lunghissimo. Molte donne hanno danni invalidanti e permanenti. In almeno un caso su tre, inoltre, la malattia riduce o azzera anche la possibilità di avere figli.
Cosa vuoi dire alle donne che ora stanno passando quello che hai vissuto tu?
Vorrei dire che dobbiamo ascoltare il nostro corpo più di qualsiasi altra voce. E che per noi stesse dobbiamo pretendere il meglio: curiamoci e ricerchiamo sempre l’eccellenza, senza preoccuparci di andare a bussare alla porta dell’ennesimo medico, magari molto lontano da casa nostra. Ne vale sempre la pena. E dico anche di parlarne e di raccontarsi, anche se non è facile. Così che la nostra salute non sia più un tabù.
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