Agroecologia e agrobusiness: in che direzione stiamo andando?
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Torino - In questi giorni a Torino è in corso il Climate Social Camp, evento che ha radunato qui più di 500 attivisti da tutta Europa, portando il tema della giustizia climatica e sociale al centro del dibattito. Mentre nella maggior parte delle nostre città il caldo ha toccato livelli emergenziali, la siccità sta prosciugando i fiumi, l’agricoltura è martoriata e le amministrazioni corrono ai ripari, immersi nel verde del Parco della Colletta si sono riuniti giovani e giovanissimi che non hanno tempo da perdere.
Sono qui per per parlare, discutere, scambiare idee e trasformare quelle stesse idee in lotta. In fondo se l’emergenza climatica è la crisi del nostro tempo non dovrebbe essere il primo argomento al centro di qualsiasi dibattito pubblico? La risposta a questa domanda ci sembra addirittura scontata. Per fortuna ci sono loro, che sono riusciti a invertire un modello: se la trasmissione di saperi è sempre passata “da padre a figlio”, adesso sono i giovani che a quel mondo di adulti hanno da insegnare qualcosa di importante.
ROMPERE IL PARADIGMA DELL’AGRIBUSINESS
Torniamo così al Climate Social Camp e ai dibattiti che i nostri attivisti hanno programmato giovedì 28 luglio e a cui abbiamo partecipato. Uno dei tavoli organizzati in mattinata era Contro l’agrobusiness, distruggere il suo meccanismo per costruire un’agroecologia politica: abbiamo scelto di seguire questo dibattito perché convinti che la gran parte delle attuali lotte climatiche non faccia che riflettersi all’interno di quel problema strutturale che oggi vediamo nel modello agroalimentare. Non neghiamo poi che la varietà e l’esperienza degli esperti presenti al tavolo ci ha convinti definitivamente.
Il tavolo è iniziato con una premessa: per parlare di agroecologia non possiamo che partire da due aspetti fortemente interconnessi: giustizia climatica e giustizia sociale. Due temi che è indispensabile analizzare insieme e attraverso una duplice lente, per imparare a leggere le crisi che attraversano la nostra contemporaneità. A moderare il dibattito è Letizia, che fa parte del network Ecologia Politica: «Abbiamo sentito il bisogno di parlare di agribusiness qui a Torino, in una delle regioni più colpite dalla crisi idrica che ha segnato l’Italia negli ultimi mesi».
L’agricoltura è sicuramente uno dei settori più a rischio nell’ambito della crisi climatica e ambientale. «Riteniamo essenziale trovarci oggi per capire come rompere questo paradigma che si rifà a una logica che noi inquadriamo come neoliberale, per la massimizzazione dei profitti della produzione. Riteniamo che sia indispensabile rompere con questo paradigma se vogliamo davvero portare un cambiamento».
«Per noi la transizione ecologica non è fatta di megaprogetti, di speculazione, di sola digitalizzazione», prosegue Letizia. «Queste proposte che ci vengono calate dall’alto – oltre che le politiche agricole che non inquadrano la situazione per quella che è – non portano una vera transizione ecologica e non fanno altro che replicare gli stessi schemi, recuperando i temi dell’ecologia ma rimettendoli all’interno dello stesso meccanismo».
COSA STA SUCCEDENDO ALL’AGRICOLTURA CONTADINA?
Tra i relatori c’è Maura Benegiamo, ricercatrice presso l’Università di Ecologia Politica di Pisa, che ci parla del libro che ha pubblicato, dal titolo La terra dentro il capitale: lei è esperta di relazioni tra agricoltura e capitalismo e ha aperto un dibattito sulle linee di trasformazione dell’agricoltura capitalista in relazione alla questione climatica ed ecologica.
Alessandra Turco vive invece sulle colline torinesi, dove ha una piccola azienda agricola di circa sei ettari. Fa parte di ARI – Associazione Rurale Italiana, membro a livello europeo del coordinamento europeo della Via Campesina. «Noi distinguiamo l’agricoltura contadina dall’agricoltura industriale, a grandi linee, rispetto alla tipologia di investimento: l’agricoltura contadina si basa sul lavoro, quindi che investe prevalentemente sulle risorse legate al lavoro e possibilmente interne; l‘agricoltura agroindustriale invece è un’agricoltura che si basa sul capitale, quindi su un investimento di fondi esterno».
Il censimento del 2020 evidenzia che sono presenti in Italia 1 milione e 133 mila aziende agricole, la cui prevalenza continua a essere composta da aziende contadine che hanno un’estensione di terra inferiore ai cinque ettari. Quello che sta si sta verificando oggi però è una forte diminuzione del loro numero: «Nel 2000 ne contavamo 2 milioni e 400 mila e questo testimonia che si sono dimezzate e che si è generato un accentramento della terra».
Purtroppo la situazione a livello europeo non è migliore: «Tra il 2003 e il 2016 abbiamo perso il 32% di aziende agricole. Le proiezioni prevedono una perdita di altri 6,4 milioni di aziende agricole da qui al 2040, per cui ci troviamo in una situazione in cui la sovranità alimentare, cioè la capacità e la possibilità dei popoli di alimentarsi attraverso un cibo prodotto localmente e con tecniche agricole rigenerative conservative, sarà sempre più difficile da portare avanti». Insomma, in parole povere ci stiamo precludendo la possibilità futura di alimentare la nostra stessa popolazione.
DAL CAPORALATO ALLE AZIENDE PRODUTTRICI DI CARNE
È poi il turno di Maria Panariello, campainer e giornalista per l’associazione Terra, che si occupa da circa dieci anni di campagne legate al caporalato e all’agroecologia. Terra in questi anni ha sempre guardato al caporalato non come una malattia, ma come un sintomo di qualcosa di molto più grande: in pratica, mai come un caso di cronaca.
«Ora siamo in estate e purtroppo in questo periodo siamo abituati a leggere di episodi tragici che avvengono all’interno dei ghetti del Sud Italia. Queste notizie colgono sempre alla sprovvista le istituzioni e la politica italiana, che non capiscono che non si deve intervenire sul caporalato in quanto tale, ma bisogna mettere le mani su tutta la filiera».
Dalla grande distribuzione fino alle lavoratrici e ai lavoratori delle campagne, perché gli intermediari hanno mille volti. Sono le cooperative, sono le agenzie interinali, sono gli algoritmi. Per questo il sistema non è facile da smantellare. Ma come ci ricorda Maria, c’è una stretta correlazione tra certi alimenti che troviamo nei supermercati e ciò che succede nei campi del nostro paese. Forse è proprio dalle nostre scelte consapevoli che dobbiamo iniziare per cambiare le cose.
Un altro interessante tema affrontato è stato quello legato alla produzione della carne: Davide e Giorgia arrivano da Parma e fanno parte del collettivo locale di Ecologia Politica. Proprio a Parma è stata condotta un’inchiesta sui prosciuttifici del territorio: a tal proposito ci hanno parlato del lavoro di analisi che hanno svolto dal punto di vista produttivo, quindi legato alla qualità lavorativa all’interno degli stabilimenti, e dal punto di vista riproduttivo, ovvero attraverso l’impatto che le industrie locali hanno sull’ambiente.
«A Parma la vertenza sui prosciuttifici ha una certa rilevanza perchè nel corso degli anni si è creata intorno tutta una retorica della “food valley” e dei prosciutti doc d’eccellenza. Ovviamente parliamo di una qualità e un’eccellenza totalmente fittizia e questo lo testimoniano le varie indagini condotte dall’Istituto Qualità a Parma».
UN’ESPERIENZA CONTADINA VIRTUOSA: MONDEGGI BENE COMUNE
Non è poi mancata la testimonianza di una realtà virtuosa come quella di Mondeggi, che si è distinta non solo nel Chianti, dove è attiva, ma in tutta Italia, mostrandoci che un’agricoltura diversa e inclusiva è possibile. Ce ne ha parlato Pietro, che a Mondeggi vive stabilmente. Come ci ha raccontato, «il Comitato Mondeggi Bene Comune dal 2014 si prende cura di questo luogo guardando a varie direzioni: quelle del bene comune, dell’agroecologia, di un tentativo di uscire dal lavoro salariato, del recupero di un’agricoltura contadina». La sua esperienza incarna il più ampio concetto di agroecologia, secondo diverse prospettive.
Come ci spiega, «agroecologia è una parola complicata che è stata riempita di significati diversi da tutti i movimenti contadini che l’hanno utilizzata. Una definizione molto bella secondo me identifica tre livelli: agroecologia come scienza, come movimento e come pratiche. È una parola multiforme i i cui confini cambiano sulla base del contesto in cui viene utilizzata».
Attraverso la gestione collettiva degli ulivi e delle vigne sperimentata a Mondeggi, la scuola contadina e i mercati portati avanti insieme ad altri produttori, questa esperienza testimonia il successo di una comunità diffusa che si è creata intorno al recupero di terreni e di processi partecipativi che promuovono la centralità del lavoro contadino.
Interventi ricchi e trasversali che hanno aperto un dibattito con il pubblico, che ha condiviso esperienze, domande e riflessioni. È chiaro come l’attuale modello agroalimentare sia da molteplici punti di vista insostenibile. Nonostante questo le testimonianze che hanno arricchito questa giornata ci mostrano un mondo fatto di persone, contadini, associazioni, cooperative e gruppi informali che che tutti i giorni continuano a combattere, per costruire un concetto diverso e virtuoso di agroecologia politica.
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