Walking Liminality: vivere per camminare e camminare per ritrovare sé stessi
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“Viaggio non per andare da qualche parte, ma semplicemente per andare”, annotava Robert Louis Stevenson. Perché “L’essenziale è muoversi; provare un po’ più da vicino le necessità e i rischi della vita”. Curioso come per il romanziere scozzese e per tanti pellegrini di oggi ascoltare sé stessi venga molto più facile mentre si convive con il ritmo dei propri passi, lontani da casa, in una sorta di fuga dall’ordinario.
Sembra invece che la vita di tutti giorni, all’apparenza più familiare e senza le innumerevoli incognite che presenta un cammino lungo il tragitto, ci allontani irrimediabilmente da noi stessi. Senza accorgercene smettiamo di chiederci cosa desideriamo o sogniamo, lavoriamo, amiamo – o crediamo di farlo – e non ascoltiamo.
Per cercare di comprendere cosa si nasconde dietro le motivazioni di coloro che oggigiorno decidono di abbandonare – anche solo per qualche mese – casa, lavoro, amici e famiglia e mettersi in cammino, Chiara e Gabriel hanno deciso di partire a loro volta e documentare l’esperienza del pellegrinaggio moderno, tra spiritualità, ricerca di sé stessi e riscoperta dell’altro. Studenti di antropologia alla SOAS University di Londra, ma soprattutto viaggiatori, i due ragazzi hanno lanciato il progetto Walking Liminality, in cui l’esperienza personale del cammino si fa ricerca etnografica.
Si dice che viaggiare da soli faccia diventare adulti: “Finché non fai un viaggio da solo – scriveva Paolo Rumiz – non impari a rapportarti con gli altri”. Chiara e Gabriel lo hanno imparato dando ascolto ai propri piedi. Ancora per alcune settimane saranno in cammino e per sostenere il loro progetto – e i loro passi – si può contribuire a un crowdfunding. L’invito è di unirsi a loro anche solo per pochi chilometri: li troverete sempre in cammino, lungo la strada.
Li raggiungo al telefono. Hanno da poco superato il confine italiano: ancora una manciata di chilometri li separa da Aosta, dove trascorreranno la notte. Inizia a piovigginare, ma è solo uno di quegli imprevisti a cui si è sempre pronti. Mi confessano che preferiscono prendere un po’ di pioggia ma almeno chiacchierare con qualcuno: dall’inizio del cammino sulla Francigena lo scorso maggio hanno incontrato a malapena dieci pellegrini. Sorridono al di là dello schermo: hanno poco più di vent’anni, il desiderio di raccontarsi e i volti distesi che non tradiscono la stanchezza delle settimane di cammino già percorso.
Come nasce Walking Liminality?
L’idea è nata dopo aver percorso il cammino di Santiago de Compostela e in particolare il cammino francese da Saint-Jean-Pied-de-Port. Lungo la strada siamo rimasti affascinati e incuriositi dalle storie delle persone che abbiamo incrociato. Senza dubbio un pellegrinaggio moderno non è più un pellegrinaggio a matrice religiosa. Anzi, molti pellegrini si proclamano atei o quantomeno indecisi sull’argomento.
Allo stesso tempo però, la spiritualità si ritrova nel percorso di molti. Abbiamo iniziato a interrogarci su quali motivazioni spingessero tante persone oggi ad accantonare il ménage quotidiano per percorrere centinaia di chilometri a piedi. Walking Liminality nasce per provare a trovare delle risposte, raccogliendo le testimonianze di chi troveremo sulla nostra strada.
Cosa vi ha spinto a mettervi in cammino?
L’idea è partita da me [precisa Chiara, ndr]. L’anno scorso uscivo da un periodo molto difficile di depressione e sconforto. Avevo lasciato a malincuore Londra, ero tornata a casa dei miei e tutto mi sembrava andasse storto. Ho pensato a quello di Santiago come un cammino terapeutico. Siccome sarei partita dalla Francia, ho scritto a Gabriel, che avevo conosciuto mesi prima all’università: all’epoca non stavamo ancora insieme.
Anche lui con lo scoppio della pandemia era tornato a casa. Così mi ha proposto di accompagnarmi per una tappa. I giorni sono passati e alla fine non è più andato via: ha deciso di camminare con me fino alla meta [sorridono, ndr]. Una volta tornati a Londra, abbiamo sentito il desiderio di rimetterci in viaggio. È come se il cammino fosse diventato casa nostra.
Perché già dal nome il vostro progetto parla di “liminalità”?
I pellegrinaggi sono degli spazi liminali, transitori, non-ordinari: dall’etimologia latina “limen”, ovvero punto di partenza o spazio di transizione. L’antropologo Victor Turner colloca il pellegrinaggio tra uno spazio sociale e un altro, lì dove ogni individuo sperimenta un forte sentimento di unione e amore per sé stesso e gli altri, un sentimento che l’antropologo definisce “communitas”.
Tutto ciò permette a coloro che fanno esperienza di un pellegrinaggio di capovolgere e rimodellare la propria vita. Quindi proprio partendo dalle teorie di Turner sulla liminalità vorremmo cercare di capire cosa renda oggi lo spazio sociale del pellegrinaggio unico e origine di importanti cambiamenti.
Quello sulla Francigena è un cammino personale e allo stesso tempo una ricerca antropologica. Da cosa siete partiti?
Siamo antropologi e ricercatori, ma viviamo quello che stiamo ricercando e tutto ciò rende il processo di ricerca più facile e complesso allo stesso tempo. Diciamo che il nostro studio deriva da quello che abbiamo percepito, sentito e vissuto noi stessi in prima persona come pellegrini. Gabriel scriverà la propria tesi sui pellegrinaggi moderni, quindi siamo partiti dalla scelta del metodo etnografico immersivo, basato su due pratiche di ricerca: “osservare partecipando” e intervistare.
Nel primo caso si tratta letteralmente di relazionarsi all’oggetto di ricerca e diventare parte della vita di quest’ultimo, al fine di coglierne il punto di vista e la visione del mondo. E poi facciamo delle domande ai pellegrini che incontriamo sul cammino: ascoltiamo le loro storie e annotiamo le loro testimonianze.
Come riuscite a trovare il giusto equilibrio tra l’esperienza personale del cammino e la ricerca antropologica che state conducendo?
Non è facile bilanciare le due cose. Sul cammino lo scambio tra pellegrini è spontaneo naturale: se si accende una telecamera e si iniziano a porre delle domande, molte persone si irrigidiscono, non riescono a essere autentiche come quando si scambiano due chiacchiere lungo la strada.
All’inizio ci siamo confrontati con la nostra docente di etnografia su come condurre la ricerca. È stata lei stessa a confermarci che non serve prepararsi delle domande, ma porle in base a chi ci si trova davanti, come in una naturale conversazione: la ricerca antropologica parte da domande semplici e spesso preparandole in anticipo si rischia di avere delle risposte che non sono autentiche. La sfida di queste discipline, come l’antropologia e l’etnografia, è cercare di creare quella giusta confidenza che spinga le persone a raccontare e raccontarsi. Costruire un dialogo vero e profondo non è da tutti.
I vostri passi lungo la Francigena, i pellegrini incontrati, i territori attraversati: come vorreste raccontare questa esperienza?
Ci piacerebbe realizzare un documentario che raccolga le testimonianze delle persone che abbiamo incontrato e restituisca la nostra esperienza di pellegrinaggio. Abbiamo ore di registrazione, interviste: tutto materiale che stiamo raccogliendo a questo scopo.Vorremmo davvero fare un documentario che spinga le persone a trovare il coraggio di partire.
Inizialmente l’idea era di realizzarlo insieme alla nostra università, ma questo ci avrebbe condizionato nelle scelte stilistiche: sarebbe stato un documentario esclusivamente accademico. Noi vorremmo che parlasse a quante più persone possibile, pur non essendo un prodotto commerciale, provando a raggiungere il giusto equilibrio tra le finalità della nostra ricerca e la componente divulgativa. Insomma quel genere di documentario che avremmo voluto guardare prima di partire.
Con chi state lavorando al progetto?
Ad oggi abbiamo iniziato a collaborare con degli studenti di film-making che studiano a Londra e che ci hanno offerto il loro aiuto per il video-editing del documentario. Il contributo di altri giovani è una parte essenziale del nostro progetto. Certo bisognerà trovare anche un produttore, ma senza rinunciare all’idea di realizzare qualcosa che ci rispecchi profondamente, anche a livello artistico e non solo per i contenuti. Il che non significa diventare i protagonisti: io non amo stare davanti alla telecamera [commenta Gabriel, ndr]. Ma i valori in cui crediamo – amicizia, ricerca personale e il legame con la natura – vorremmo che fossero il centro della narrazione.
Fino ad ora cosa avete scoperto sul perché molte persone oggi si mettono in cammino?
La maggior parte della gente che si mette in cammino prova a uscire da una fase di crisi o ha vissuto un evento traumatico che ha deviato il flusso della vita. È come se non trovando risposte nella vita di tutti i giorni, scelga il cammino per ritrovare il corso naturale delle cose.
L’altro giorno abbiamo incontrato un uomo che si era ripromesso di mettersi in viaggio a piedi dopo aver scoperto che la moglie si era ammalato di cancro. Ai primi segni di guarigione della compagna, ha mantenuto la promessa e ha percorso prima il cammino di Santiago e ora la Francigena. Segna i posti che gli piacciono di più, in modo da poterci tornare con la moglie, un giorno.
Ci si mette in cammino anche per superare una forte delusione. Una donna sulla cinquantina ci ha raccontato che dopo vent’anni di matrimonio il marito l’ha piantata perché non la trovava più attraente. Per tutto quel tempo quella donna aveva avuto la sensazione di essere stata solo una metà, una parte di suo marito. Da quando aveva deciso di mettersi in cammino, sulla strada è riuscita a ritrovare sé stessa, la sua identità e soprattutto la sua interezza. Mentre nella vita siamo spesso la moglie o il marito di qualcuno, o qualunque altro ruolo sociale ci passi per la mente, sul cammino siamo noi e basta. E ci presentiamo come tali.
L’esperienza del cammino viene vissuta non solo dai pellegrini ma anche da chi fa accoglienza e abita i territori attraversati. Che testimonianze avete raccolto tra chi vive il pellegrinaggio pur non spostandosi?
È proprio così. Abbiamo attraversato paesi di sole ventotto anime: spesso per gli abitanti dei paesi, incontrare i pellegrini è un modo per viaggiare pur restando nelle proprie case. Per esempio una notte siamo stati ospiti in un monastero e abbiamo incontrato una suora di clausura che vive lì da oltre cinquant’anni. In tutto quel tempo non è mai uscita, ma grazie agli incontri con i pellegrini – è l’unica autorizza ad avere dei contatti con l’esterno – è come se viaggiasse per il mondo.
Il cammino permette di riscoprire i paesaggi a un’andatura lenta e rispettosa. Come si intreccia alla vostra esperienza la percezione della natura?
Nel nostro progetto l’uomo e la natura si incontrano più o meno in ogni punto. Non solo poiché camminiamo più o meno sei ore al giorno in mezzo alla natura, ma perché in cammino si impara ad ascoltarsi: il ritmo è dettato dalla durata del giorno e nelle aree interne che abbiamo attraversato ci sono ancora persone che vivono con e non a discapito della natura. Si impara osservando e si mangia quello che è di stagione, nulla di diverso. Ricordo una volta sul cammino di Santiago, in un villaggio chiamato El Ganso, di essere andata nel supermercato del villaggio e aver chiesto un’insalata.
A quel punto, la donna che lavorava alla cassa mi porta nel retro e mi chiede di scegliere dall’orto quale e quanta insalata volessi, così che la potesse raccogliere, lavare dalla terra e dividere, una o parte per me e una parte per lei e suo marito a cena. E poi ci siamo resi conto di quanto nelle campagne il cambiamento climatico sia più tangibile rispetto alle città. Ce ne siamo accorti attraversando l’Europa e raccogliendo le testimonianze degli abitanti del posto. Lungo la strada abbiamo parlato con molti agricoltori: l’onda d’urto dei cambiamenti climatici si abbatte prima di tutto su di loro.
Chiara, dopo tutti questi passi, in cosa ti senti cambiata?
Per prima cosa mi ascolto di più. Quando sei in cammino impari a sentire i tuoi bisogni e a bilanciare mente e corpo. La mente spesso ci blocca di fronte ai limiti, ci scoraggia: in cammino si impara a farcela, con le proprie forze. E poi sulla strada ho trovato la fiducia in me stessa. Dopo aver attraversato paesi e confini solo grazie alle mie gambe, ho imparato a bastarmi.
Infine credo che l’umanità sia la scoperta più preziosa: la gente ti accoglie a casa propria, ti offre qualcosa da bere, perché è umano aiutare l’altro. Da donna, cresciuta nella cultura della diffidenza che contraddistingue la nostra società, imparare a fidarsi di chi si incontra per strada è stata una grande fortuna.
E per te Gabriel, cos’è cambiato?
Negli ultimi tempi avevo totalmente perso la fiducia in me stesso. Avevo difficoltà a relazionarmi con gli altri, oltre a non sapere più che percezione avessero di me. Da quando ho iniziato a camminare mi sono ritrovato, ho sentito finalmente che lo scambio con gli altri era autentico, profondo: ero di nuovo me stesso. Credo sia questo il cambiamento più importante che mi sono portato a casa.
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