Sara Grippo racconta la malattia e la rinascita: “È stata la montagna più difficile da scalare, ma le sono grata”
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Torino - Spesso raccontarsi è davvero difficile. Anche a distanza di anni. La voce rotta dal pianto e le mani tremanti. Sara Grippo era una ragazza come tante, finché è arrivata la malattia. Lei ha sempre scalato e dal 2008 si è trovata davanti la montagna più alta della sua vita. Ma non si è arresa e ha affrontato anche questa ascensione diventando un’eroina. Quando devi lottare, lotti. Non c’è altra scelta e i risultati saranno eccezionali.
Chi eri? Che cosa facevi?
Forse non lo so neanche io chi sono. Sono una donna instabile, emotivamente mi è difficile raccontarmi. Però ci provo. Ero una ragazza normale, molto solare e innamorata dello sport in montagna. Avevo sogni, un lavoro e una vita spianata. Sono sempre stata bene e mai mi sarei aspettata un evento del genere: una malattia autoimmune che mi ha stroncato all’età di 23 anni.
Che cosa è successo?
All’improvviso ho cominciato a gonfiarmi, ad avere fortissime nausee e sangue nelle urine. Ho preso 13 litri di acqua che sono andati a finire nel cuore e nei polmoni. Nessuno capiva cosa mi stesse succedendo. Sono arrivata al pronto soccorso delle Molinette, a Torino, e lì sono rimasta due mesi. Avevano capito fosse un problema ai reni e dopo una biopsia renale hanno capito si trattava di glomerulonefrite autoimmune da iga, anche detta malattia di Berger.
Inizialmente, hanno provato a curarmi con le medicine, ma non avevano effetto. Così mi hanno attaccato alle macchine e alla fine sono riusciti a salvarmi. Tornata a casa, ho iniziato a prendere moltissime medicine che avevano terribili effetti collaterali su di me, così ero costretta a fare spesso avanti e indietro dall’ospedale. Per cinque anni la malattia è stata tenuta a bada prendendo 16 pasticche al giorno.
Poi una nuova ricaduta…
Purtroppo nel 2012 la malattia è esplosa di nuovo e in maniera violenta e in pochi mesi mi ha distrutta ancora una volta. È andata avanti così per sei mesi: vivevo con un catetere nel peritoneo che usciva fuori dalla mia pancia e lo tenevo arrotolato in un marsupio: era parte di me e ogni quattro ore mi dovevo caricare e scaricare l’addome di questo liquido. Faceva insomma il lavoro dei reni. Finché un giorno mi hanno portata d’urgenza in ospedale, dove ho perso conoscenza. Avevo tanta paura di morire. Mi hanno messo un catetere nella giugulare del collo e mi hanno attaccata a una macchina di emodialisi.
Ho dei flash di quel momento, ma non ricordo bene i dettagli. Ricordo mia madre di fianco che piangeva e tanti medici intorno a me. Sono rimasta in ospedale molto a lungo e poi è cominciata una vita avanti e indietro dall’ospedale per fare la dialisi. All’inizio perfino tutti i giorni, poi tre volte a settimana per quattro ore. Sono andata avanti così per sei anni. I miei reni non funzionavano più. Non potevo bere, assumevo pochissimi liquidi e non facevo un goccio di pipi, perché i miei reni non erano in grado di svolgere il loro compito e così l’acqua in eccesso era espulsa dalla macchina.
Nel frattempo cosa facevi?
Continuavo a vivere. Lavoravo portandomi dietro le sacche per le cure. Uscivo ed entravo di continuo dall’ospedale per fare la dialisi. Ho sempre cercato di vivere la mia vita non facendomi coinvolgere dalla malattia e dalla macchina per le cure. Scalavo, praticavo yoga, seguivo le mie passioni e mi godevo la mia esistenza e ciò che mi piaceva nei giorni in cui non ero in ospedale.
Poi cosa è accaduto?
Il 2 febbraio del 2018 alle 4 e mezzo di notte è arrivata una chiamata: l’ospedale di Torino mi annunciava che c’era un rene compatibile con me. Sono subito partita per Torino e mi hanno operata. Mi ricordo che al risveglio ho visto la sacca della pipì e ho capito che finalmente avevo un rene sano che funzionava. Dopo sei anni, ho finalmente fatto la pipì.
Dopo quel momento – la tua “caduta” psicologica, fisica, e animica – quali scelte hai compiuto e quale impatto o conseguenze hanno avuto su di te?
La malattia mi ha cambiato completamente il modo di pensare e di vivere. La vita è una e bisogna assaporarla fino in fondo. Le certezze cambiano. I progetti si modificano. Mi sono resa conto quanto tutto può cambiare all’improvviso e che l’importante è godersi il momento. Assaporare ed essere grati per ciò che si ha. Il trapianto per me ha rappresentato una nuova possibilità di vita: non ero più attaccata alle macchine e potevo finalmente essere libera. Come non esserne grata? Come non vivere appieno ogni istante?
La tua malattia la puoi intendere come una svolta ? È stato il punto più basso o più alto nel tuo percorso?
Scoprire la malattia è stato il momento più difficile della mia vita. E accettarla è stato durissimo. Un percorso difficile, ma importante, perché mi ha permesso di vivere con degli obiettivi per non esserne schiava. E in fondo la devo ringraziare perché mi ha insegnato tanto. Il trapianto invece è stato una rinascita: mi ha fatto capire chi sono in profondità. Mi ha reso libera e grata. Sono sopravvissuta grazie alla donazione di una persona che non c’è più e che ha permesso ad altre di vivere.
Cosa è cambiato dopo aver attraversato questo processo?
Sono cambiata io per prima. Profondamente. Cerco di lamentarmi meno possibile e di godermi ciò che ho. Mi sforzo di vivere nel presente senza angosciarmi per il futuro. So che un giorno dovrò tornare in dialisi e forse fare un altro trapianto, ma non ci penso e resto nel presente per approfittare di questa nuova possibilità di vita che mi è stata donata.
Cosa ha rappresentato scalare per la tua rinascita?
Scalare è stata una medicina. Come lo yoga. Un toccasana per l’anima. Arrampicare mi dava obiettivi e mi faceva provare sensazioni di vita. Sul tappetino e sulla parete di roccia ero io a decidere, non la malattia. Mi dava la carica per sopportare le giornate attaccata alla macchina. Le passioni possono essere uno strumento per attraversare i momenti difficili.
Cosa pensi oggi di tutto quanto è successo?
Penso che ho sofferto tanto. È difficile spiegarlo a parole. Ma è attraverso la sofferenza che sono cresciuta e per questo alla fine le sono anche grata. Ho voglia di essere felice e non pensare a ciò che ho attraversato. Non c’è un modo per far comprendere ciò che ho passato, ma l’importante è che io sia qui a raccontarlo. E ne sono felice, anche se parlare della mia storia è sempre faticoso e doloroso.
Cosa consiglieresti alle Moderne Persefone che hanno davanti a loro una montagna difficile da scalare?
Consiglierei di essere sempre forti e fragili allo stesso tempo. Di non arrendersi mai e credere in loro stesse. Non pensate mai di non farcela, perché ognuna di noi ha una forza dentro incredibile. Molto più di quello che pensiamo. E quando siamo obbligate a tirarla fuori ci sorprenderemo di quanta ne abbiamo. Affidatevi alle vostre passioni: aiutano a sopportare enormi dolori.
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