La Xylella Fastidiosa, il Covid e l’Homo Sapiens
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Lecce, Puglia - Quando si parla di argomenti che richiedono un certo grado di competenze tecniche è buona norma sentire il parere degli esperti. Affidarsi agli esperti però significa necessariamente abdicare allo spirito critico, all’intuito e alla logica che ciascuno di noi può esercitare autonomamente? E, più in generale, possiamo considerare l’intera conoscenza appannaggio esclusivo di una ristretta schiera di studiosi settoriali? Secondo noi, no.
Prendete il tema della plastica monouso. Non ci vuole un genio a comprendere che il perdurare del suo utilizzo sta provocando danni incalcolabili: ai mari, dove spesso viene smaltita; all’aria, dove finisce per essere diffusa quando viene incenerita; ai terreni, dove torna in seguito alle precipitazioni atmosferiche; al clima, che influenza attraverso le emissioni dovute alla sua produzione, trasporto e combustione.
Eppure vi sfido a trovare un solo ingegnere dei materiali che proponga soluzioni diverse da quelle derivanti da un approccio tecnicista ed emergenziale: macchine che raccolgono la plastica, batteri creati in laboratorio che la decompongono, plastica biodegradabile, ecc. Nessuno di loro affronta il tema dal punto di vista, diciamo così – spero ci perdonerete la forzatura – filosofico, domandandosi se non sia la dipendenza dell’economia dal consumo e quindi dallo spreco la vera criticità da affrontare.
Ecco perché sul tema della Xylella Fastidiosa – si chiama proprio così il batterio degli ulivi che sta mettendo in ginocchio l’economia del Salento – vogliamo ragionare diversamente da come la grande stampa, le istituzioni e quasi tutti gli esperti hanno fatto finora. Iniziamo col dare per verificati tre assunti: il primo assunto è che la Xylella Fastidiosa esiste, il secondo è che essa è diffusa su una parte consistente degli ulivi del Salento, il terzo è che la sua presenza provoca effettivamente l’essicamento e la morte degli alberi.
Diamo cioè per certe le evidenze che tutti gli esperti hanno dimostrato, anche perché – pur non essendo così ingenui da credere che tutti i tecnici siano sempre in buona fede – vogliamo evitare di sconfinare nel campo dell’indimostrabile, all’interno di quell’area grigia di conoscenze che l’informazione ufficiale, a torto o a ragione, spesso etichetta come teorie complottiste.
Non perché i dubbi su quanto viene comunemente riportato dalla stampa siano poco leciti, ma perché ci interessa ragionare secondo quell’approccio che abbiamo definito filosofico senza negare una premessa scientifica fondamentale. L’approccio filosofico è quello del buon senso, mentre la premessa scientifica è la più banale che avrete mai sentito da quando frequentavate le scuole elementari: gli alberi sono esseri viventi.
Ora, immaginate che un altro essere vivente, diciamo un umano, si nutra quotidianamente di cibo sintetico, passi tutto il tempo da solo, sia costretto a lavorare a tempo pieno, sia trattato come una macchina prodotta in serie, debba vivere in condizioni climatiche e ambientali sempre più estreme, sia esposto sempre più spesso a nuovi e sconosciuti patogeni provenienti da chissà dove. Pur senza essere nutrizionisti, infettivologi o psicologi, quanto vi meraviglierebbe sapere che a un certo punto della propria esistenza, magari nel pieno dell’età adulta o addirittura durante la sua giovinezza, questo umano abbia sviluppato allergie, intolleranze, deficit immunitari, malattie invalidanti o addirittura incurabili?
Se è vero che gli umani sono esseri la cui salute dipende dagli elementi ambientali, nutritivi e sociali che ne determinano la qualità della vita, la stessa cosa vale anche per gli altri viventi. È un ragionamento talmente di buon senso che nessun ricercatore che abbia analizzato il microbioma terrestre e le sue connessioni con la salute umana, ha mai osato mettere in dubbio.
Le relazioni fra la composizione biologica di un terreno – intesa come numero e diversità di microrganismi, insetti e minerali che lo popolano –, la fertilità dello stesso terreno e la qualità della vita delle creature che si nutrono dei suoi frutti, sono difatti scientificamente assodate. La terra è viva e dalla sua vitalità dipende la capacità delle piante di reperire acqua, energia e nutrimenti necessari per prosperare e difendersi da criticità ambientali e agenti patogeni, compresa la Xylella.
E invece, in Salento, in questi anni è accaduto che i rimedi legiferati si siano ridotti – come nel caso della plastica –, alla solita logica tecnicista ed emergenziale: da un lato l’uso massiccio di erbicidi e insetticidi per contrastare la sputacchina, ossia l’insetto vettore della Xylella, e dall’altro l’abbattimento delle piante contagiate e di quelle attorno ad esse, da sostituire con varietà di ulivi tolleranti al batterio.
Un po’ come se, durante la fase emergenziale del Covid, il Governo avesse imposto di bere mezzo litro al giorno di gel disinfettante per le mani e l’abbattimento delle persone ammalate e dei loro contatti più stretti, da sostituire con bambini provenienti da zone meno infette del mondo. Surreale, vero? Beh, riponete nel cassetto la vostra meraviglia. Nel regno vegetale questa è la norma.
Pur senza essere agronomi o biologi infatti, chiunque dotato di un minimo di buon senso capisce che questa modalità di azione contro la Xylella danneggia la popolazione degli insetti impollinatori, diminuisce la qualità dei frutti, altera il paesaggio e distrugge antichi saperi. Senza peraltro contrastare i reali motivi che rendono le piante così deboli e indifese di fronte all’infezione, ossia il modo in cui trattiamo il terreno, che continua a essere avvelenato, impoverito di materiale organico e di biodiversità, sfruttato fino alla sua desertificazione per ubbidire al dogma delle monoculture.
Del resto anche per il Covid è stato così. La maggior parte degli studiosi ha convenuto che il virus sia comparso a causa di un salto di specie (spillover) dovuto alla deforestazione – che, insieme agli allevamenti intesivi, costringe a sempre più frequenti contatti fra animali selvatici e uomo – e si sia diffuso così rapidamente grazie alla globalizzazione e alle polveri sottili nell’aria.
Eppure, alle soluzioni tecnicistiche ed emergenziali prospettate – i vaccini, il distanziamento, il lockdown, la costante disinfestazione – non sono state affiancate quelle che, con lo stesso pizzico di forzatura usato in precedenza, continuiamo a definire filosofiche: rispetto degli animali e dei loro habitat, ri-localizzazione delle produzioni, riforestazione su vasta scala, riduzione delle emissioni inquinanti, ecc. Col risultato che la nostra specie continuerà a essere esposta sempre più regolarmente a nuovi e sconosciuti patogeni, esattamente come continueranno a esserlo gli ulivi nel Salento e magari, presto, le mele in Trentino, le pesche in Emilia e tutte le altre monoculture sviluppatesi negli ultimi decenni in nome della produttività.
Nel bel documentario Legno vivo – Xylella oltre il batterio – di cui abbiamo parlato in questo articolo – gli autori conducono gli spettatori in Spagna, nella provincia di Almeria, dove già da venticinque anni si mette in pratica l’ulivicoltura iper-industriale che oggi le misure anti-Xylella stanno suggerendo al Salento.
In questi due decenni, il paesaggio di quella regione iberica è diventato inquietante: enormi distese di terreno ormai sterile mantenuto artificialmente in vita dalla chimica, falde acquifere prosciugate, borghi abbandonati a causa dell’emigrazione, terreni senza più valore, alberi così sfruttati che diventano improduttivi dopo pochi anni dalla loro messa a dimora, sprechi energetici e, come se non bastasse, produzioni di dubbia qualità nutrizionale e imprese agricole gigantesche in grado di setacciare il barile fino in fondo per poi abbandonarlo e trasferirsi altrove per ripetere lo stesso schema di rapina e distruzione.
In questo sconcertante panorama, prendiamo atto con speranza della recente decisione del TAR della Puglia di accogliere i ricorsi dei proprietari di 37 ulivi monumentali nel brindisino risultati infetti che si erano opposti all’obbligo di eradicazione delle piante ordinato dalla Regione. Chissà che non sia l’inizio di un’inversione di tendenza che possa presto portare alla decisione di considerare endemica la Xylella, proprio come inizia ad avvenire con il Covid. Una decisione che permetterebbe di sperimentare la convivenza con il batterio e di attuare, nel medio-lungo periodo, misure di carattere più generale, finalmente fuori dalla logica tecnicista ed emergenziale che ne ha fin qui contraddistinto l’azione di contrasto.
Perché, come direbbe qualsiasi contadino senza trattore, la natura trova sempre il suo equilibrio espellendo da sola ciò che ne altera l’armonia generale. Natura Sapiens, potremmo dire (con un pizzico di filosofia). E qui attenzione, perché se leggendo questa breve riflessione avrete attivato il vostro buon senso – di cui, credeteci, siete dotati a prescindere da quanto siate esperti di questa o quell’altra materia – capirete bene che il tempo che ci resta dall’espulsione dell’Homo Fastidioso è più breve di quanto si possa immaginare.
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