Sorellanza in bicicletta: il viaggio di Valentina Battistoni lungo la via Francigena
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«Porto il mio corpo sulla bici nello spazio pubblico invitando altre persone a farlo con me, perché credo che questo sia il momento storico per vivere da comunità nei luoghi in cui avvengono comunemente discriminazioni e violenze e per lottare insieme verso la costruzione di una nuova umanità».
È questa la frase che forse meglio di tutte riassume il significato del viaggio che Valentina Battistoni si appresta a intraprendere in bicicletta, seguendo lo storico percorso della via Francigena dal Gran San Bernardo al Salento. Significato, ma anche significante. Perché pedalando attraverso l’Italia Valentina vuole produrre un cambiamento, sovvertire logiche di sopraffazione trasversali a diversi ambiti culturali.
È donna, è ciclista, è artista. E la sua iniziativa sarà finalizzata a sensibilizzare viaggiando in merito alle tematiche di genere e alla mobilità sostenibile, attraverso l’espressione artistica. Un percorso mentale, ancora prima che fisico, eterogeneo e variegato, che però è intriso di una profonda coerenza. Ma partiamo dall’inizio, partiamo da lei.
Ti puoi presentare? Quali sono il tuo percorso personale e professionale, le tue passioni e gli obiettivi che ti hanno portato a inforcare la bicicletta e partire?
Mi risulta sempre complesso presentarmi perché il mio percorso sia personale che professionale abbraccia davvero tante strade variegate, e tutte a loro modo mi hanno portato a questo progetto. Ma ci provo, iniziando dal nome, che è sicuramente la cosa più semplice: Valentina Battistoni. Le mie amiche più strette dicono che sono una ricercatrice e mi ci ritrovo in questa parola. Per un periodo, un po’ di tempo fa, l’ho fatto davvero professionalmente nell’ambito delle neuroimmagini, in un laboratorio di Roma.
Lì è nata la mia avversione per le macchine e il traffico e la follia umana di muoversi una persona per auto, creando un disagio enorme nella vita quotidiana di tutte le persone che abitano la città. Mi sembrava tutto molto innaturale e assurdo. Poi una delle mie amiche più care mi invitò alla Ciemmona, ma io avevo troppa paura di mettermi nelle strade romane con la bici e non c’era verso di farmi cambiare idea.
Qual è stato il passo successivo?
Molti anni dopo mi sono trasferita a Bologna per continuare la mia ricerca, questa volta come danzatrice e performer. Il secondo giorno avevo già comprato una bici usata, di quelle tipicamente bolognesi. Un giorno, mentre pedalavo su via dell’Indipendenza, ho sentito una sensazione di libertà che non provavo da tempo, la bici stava avendo un effetto benefico su di me. E fondamentalmente mi stavo rendendo conto che con bici e mezzi pubblici potevo fare tutto. E che potevo andare in bici con qualsiasi condizione meteo.
Lì ho preso la decisione di vendere la macchina: non mi era mai piaciuto guidare, non volevo più spendere soldi per l’auto e volevo partire per un cammino. Non aveva senso tenerla e appena l’ho venduta ho sentito una grande liberazione dalle cose. Mi ero tolta un peso dato per scontato dal mondo capitalista, ma che non mi rappresentava ed è stata una gioia immensa, anche se molti non la capirono.
Quando la bicicletta ha acquistato un valore che andava il suo essere semplicemente un mezzo di trasporto?
Il salto gigante nel mondo della bici come strumento politico e di attivismo è avvenuto grazie all’incontro con una persona già immersa per lavoro e passione in queste tematiche. Abbiamo iniziato a pensare alla possibilità di azioni artistiche di sensibilizzazione all’uso della bici, ma soprattutto a rendere visibile la questione del diverso utilizzo dello spazio pubblico se ci fossero meno macchine. Lo spazio pubblico era il filo conduttore, anche della mia ricerca come artista.
Spazio pubblico insieme a corpo, spazio personale e relazione sono le parole chiave della mia ricerca come artista e attivista. Mi piacerebbe che le città venissero vissute, abitate e attraversate dai corpi, che fossero pensate e costruite a misura di essere umano, a misura di comunità. La lontananza dalla natura ci ha portato lontano dal nostro corpo, da ciò che siamo, la macchina contribuisce a questa alienazione. Occupiamo molto spazio in auto e ci allontaniamo fisicamente dalle altre persone e dalla città. Con l’auto l’approccio è quello di manifestare il proprio potere, la propria potenza e superiorità rispetto a tutto ciò che ci circonda.
La bici al contrario è un mezzo di prossimità: con lo spazio urbano, con la natura, con le altre persone e con me stessa. Grazie a essa ho scoperto molte parti di me, mettendomi alla prova, sfidando il mio corpo a un nuovo utilizzo che non avevo mai vissuto fino a poco tempo fa. La bici ti permette di sentire la relazione con il tuo organismo, la relazione con la natura, con lo spazio e di vivere la relazione con gli altri esseri umani, anche banalmente scambiando uno sguardo e un sorriso. Con la bici si riassapora il valore del tempo, di un tempo lento, in cui vivi. Sei visibile in tutta l’espressione di te, non puoi nasconderti dietro a vetri oscurati e acciaio blindato. Con la bici diamo nuovamente valore al silenzio, indispensabile nella nostra società.
Arte, mobilità sostenibile e cultura di genere sono i tre grandi temi del tuo viaggio: qual è il filo rosso che li unisce?
Spazio pubblico, essere comunità, essere visibili e partecipazione attiva. Questo è il filo rosso che unisce queste tre macro-tematiche. Credo nella necessità di tornare ad abitare lo spazio pubblico come comunità di corpi alleati in cui mettere al centro il rispetto, la cura e la relazione. Pratico l’arte soprattutto condividendo pratiche partecipative in cui le persone sono chiamate a essere creatrici dell’opera stessa e ad agire nello spazio pubblico, in cui tutte hanno le stesse possibilità di fruire di un’azione artistica e soprattutto in cui incontri persone di ogni cultura, età, genere, provenienza.
La mobilità sostenibile per me non è solo collegata a un fattore ambientale, di minor inquinamento – che infatti non ho mai citato fino ad ora – ma soprattutto, o almeno questo è quello che più mi muove, è legata all’insegnarci nuovamente il rispetto per noi stess* e per il pianeta. Ci educa alla gentilezza, alla lentezza a tutti quei valori che questa società in seguito all’industrializzazione e all’abbandono delle campagne, ha perso. È un tornare alla radice di quello che siamo.
Ciò che abbiamo creato che poteva sembrare progresso fino a un certo punto della nostra storia, ora non le è più, ed è il caso di farci domande e attuare cambiamenti quotidiani nella nostra vita di tutti i giorni, in sinergia con amministrazioni locali e stati che creano anche le condizioni per farlo in maniera più semplice.
La questione di genere la sento sulla mia pelle come donna ogni volta che sono in bici, in cui sono soggetto fragile due volte: come donna e come ciclista urbana. La sento nello spazio pubblico, quando vengo giudicata per come mi vesto, per come decido di esprimere la mia identità di genere fuori dai canoni patriarcali, quando mi fischiano per strada, quando la notte ho paura di passare in certe strade. Quando sento dire che ancora certe cose non sono da donna – come la bici, i lunghi viaggi, le grandi imprese – perché la storia ha taciuto su questo e quindi non abbiamo avuto esempi a cui rifarci.
Quale sarà il tuo programma di viaggio? Perché hai scelto proprio la via Francigena come itinerario da seguire?
Partirò l’11 luglio da Pesaro per raggiungere Aosta in treno, con vari treni regionali, dato che volendo caricare la bici senza smontarla, in Italia non posso utilizzare altri tipi di treni. Il 13 luglio partirò dal Gran San Bernardo. Seguirò fino a Roma le tappe della Via Francigena corrispondenti a quelle segnalate dall’app ufficiale. Da Roma a Leuca mi rifarò ad alcune tratte corrispondenti a quelle per chi va in cammino e ad altre diverse che mi sono state segnalate da una coppia che ha fatto la Francigena del Sud poco tempo fa in bici.
In media percorrerò una cinquantina di chilometri al giorno. Farò una prima deviazione a Modena per condurre un laboratorio di pratiche corporee sulla cura in collaborazione con la Rete Donne Transfemminista di Arcigay e partecipare a quello che abbiamo organizzato con Marie Moise – gratuito e aperto a tutt*. Stessa cosa accadrà a Siena, dove avremo come ospite Marcella Corsi, con la quale dialogheremo e rifletteremo sul valore della sorellanza.
Dopo Siena farò un po’ più di pause fermandomi a Bagno Vignoni e Bagni di San Filippo. E poi vediamo cos’altro si muoverà in Toscana, dove ci sono altre due realtà che vorrei passare a visitare: Agripunk – associazione, rifugio e spazio sociale antispecista antifascista – e alle Campate, un luogo di donne per le donne e spazio di sciamanesimo a cura di Sofie della Vanth. Inoltre in alcune città farò degli interventi artistici partecipativi utilizzando la poster art come strumento per creare pratiche relazionali per e con la comunità.
Ho scelto la Via Francigena perché avrei dovuto fare un cammino proprio su parte di questo itinerario con un progetto sociale femminista di due mie amiche a marzo 2020, durante il quale in cui avremmo incontrato Sofie della Vanth. È chiaro che non siamo mai partite. Così mi era rimasto il pallino e volendo attraversare tutta l’Italia da nord a sud per portare il mio messaggio simbolicamente ovunque, affinché nessuna persona si senta esclusa, ho scelto di farlo seguendo questo tracciato.
La sorellanza che vuoi promuovere viene declinata, in occasione dei tuoi incontri, anche attraverso ambiti apparentemente distanti, come l’economia e la cura. Qual è la sintesi che cerchi?
Appartengo a un movimento di economia circolare femminile, per cui per me economia e cura non sono degli ambiti così distanti. Lo sono nella società capitalista in cui abbiamo separato tutto: la materia dall’anima, la politica dalla spiritualità, dove abbiamo messo il profitto al primo posto e non più le persone con i loro sogni, ma in realtà tutto è connesso se vogliamo creare una società più coesa, più equa e più rispettosa. Può apparire utopistico, ma non è così, ci sono già molte reti solo di donne o di donne e uomini insieme che funzionano in questo modo. Rimangono solo nel sottobosco, perché ancora ritenute apparentemente molto strane dai più.
La sintesi che cerco è far confluire spiritualità e politica, ossia rimettere al centro della politica e delle nostre vite valori come cura, gentilezza, ascolto, accoglienza, cooperazione, condivisione. Sono valori che appartengono a ogni essere umano e che non vengono presi abbastanza sul serio. Sono ancora sinonimo di fragilità e per questo dialogano male con il potere patriarcale, che viene incarnato sia da donne che da uomini, anche se maggiormente da uomini bianchi cis ed eterosessuali.
L’idea di sorellanza che voglio promuovere è quella di Marcella Corsi, da cui è nato il nome del progetto, che dice: «La sorellanza è uno stato dell’anima, una predisposizione nei confronti del genere umano, e poco ha a che fare con il sesso biologico delle persone». Quindi mi rivolgo a tutte le persone, non solo alle donne. Parli di sorellanza perché fratellanza è già stato usato abbastanza, è un termine già pieno di significati e molto legato alla religione. Sorellanza, in questo modo, può essere un termine a cui dare un nuovo significato e un nuovo valore per tutt*.
Il tuo progetto conta anche su alcune collaborazioni con realtà dei territori che attraverserai, ce ne puoi parlare?
Faccio parte delle Rete Donne Transfemminista di Arcigay quindi ho pensato di organizzare con loro – e in particolare con i comitati di Modena e Siena – due laboratori, di cui ho parlato sopra. Al momento ho contattato anche i gruppi Salvaiciclisti di Roma e Bologna, con cui spero possa nascere un’ulteriore collaborazione. E, prima della partenza e in itinere, contatterò associazioni di donne e collettivi transfemministi per allargare la rete di azione.
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