Spiegare la guerra ai bambini: c’è un modo giusto per farlo?
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A fine marzo sono partito per Leopoli con la carovana di pace #stopthewarnow e sono stato via di casa per alcuni giorni. Naturalmente ho dovuto avvisare i miei figli – la più grande ha 6 anni, la più piccola meno di 2 – che papà si sarebbe assentato per un po’ e, com’era prevedibile, la prima cosa che mi hanno chiesto è stata: “Ma dove vai?”.
In quel momento la mia compagna e io ci siamo resi conto dell’importanza di restituire ai nostri figli una narrazione di ciò che sta succedendo in Ucraina – e non solo ovviamente, poiché sono tanti i conflitti aperti in questo momento nel mondo – che fosse al tempo stesso veritiera ma alla portata delle loro menti ancora vergini rispetto ai tempi gravi e importanti del nostro tempo.
Nello spiegare la guerra ai bambini «non bisogna eludere questo tema, ma neanche dare informazioni di tipo nozionistico, storico o geopolitico», spiega Ilaria Montixi, una delle responsabili dell’Ufficio Scuola di Emergency. «Bisogna piuttosto concentrarsi sullo stimolare una riflessione. Con i più piccoli si può partire da uno storia o da una filastrocca, come La strabomba di Mario Lodi o Promemoria di Gianni Rodari».
Ispirandoci a questi consigli e facendoci guidare dal nostro istinto genitoriale, la mia compagna e io abbiamo tentato con i nostri figli un approccio fortemente incentrato sull’empatia con le persone che stanno vivendo sulla propria pelle gli effetti della guerra. Prima della mia partenza per Leopoli ho scelto insieme a loro dei giochi dai loro cassetti da regalare a bambine e bambini ucraini.
Per loro è sicuramente molto arricchente l’esperienza che stiamo facendo di accoglienza di una famiglia in casa nostra. Giorno dopo giorno la loro capacità di solidarizzare ed empatizzare sta crescendo, alimentata anche dai racconti – che, per quanto possibile, cerchiamo di mediare e rendere più comprensibili – di ciò che i congiunti delle persone ospitate stanno vivendo nel loro Paese.
Cerchiamo sempre di tenere a mente una raccomandazione che Save The Children rivolge a chi ha la responsabilità di educare i bambini – ma che è assolutamente indicata anche per gli adulti –, cioè che “non bisogna dimenticare di lasciare il giusto spazio alle emozioni, che possono essere anche molto forti quando si tocca un tema come la guerra. Quelle dei bambini, come la paura che certe cose possano succedere anche ai propri familiari, hanno bisogno di essere contenute e non amplificate”.
Spiegare la guerra ai bambini può essere anche un’opportunità per trasformare un argomento drammatico in un’occasione di crescita, introducendo ad esempio temi come i diritti universali, la lotta al pregiudizio, la responsabilità politica o il valore della solidarietà. Il tutto ovviamente con termini e concetti tarati rispetto all’età degli interlocutori.
Dare spazio alle testimonianze dei coetanei è importante. Save The Children osserva che “le storie personali hanno sempre un grande impatto sugli adulti come sui bambini e possono servire anche a comprendere meglio, sfruttando l’empatia e l’immedesimazione. La narrazione autobiografica può essere molto utile non solo per capire le condizioni dei bambini in guerra, ma anche per conoscere i loro sogni”. Sempre questa ONG infine, suggerisce il ricorso a storie, testi o illustrazioni, come per esempio quelle realizzate da Sherazade, una bambina siriana rifugiata nel campo greco di Idomeni.
Fortunatamente anche a livello territoriale sono numerose le iniziative di enti scolastici e sanitari, scuole, associazioni e progetti impegnati nel campo dell’educazione e della pedagogia che propongono momenti d’incontro, confronto e formazione sul tema. Proprio alle parole della presidente di una di queste realtà – a parlare è Carla Rinaldi della Fondazione Reggio Children – affido le battute conclusive di questa riflessione.
«I bambini sono i più grandi ricercatori di senso delle cose e la guerra è così difficile da riportare proprio perché non ha senso. Questo ci mette in imbarazzo e ci impedisce di dare spiegazioni. I bambini sono empatici e quindi quelli che piangono (in Ucraina) quasi certamente diventano loro. Per questo dobbiamo aiutarli non negando, bensì creando una zona non edulcorata ma di protezione: è meglio essere autentici anche perché i bambini sanno cosa sta accadendo».
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