Giuseppe Sommario: “Ritorno in Calabria? Sono tanti (e diversi) i modi per farlo”
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Se parliamo di “ritorno in Calabria” cosa intendiamo esattamente? Il ritorno può essere soltanto quello di chi torna per viverci? Quanti modi di ritornare esistono e che ruolo ha questo elemento nella vita di chi è partito? Proviamo a rispondere a queste domande insieme a Giuseppe Sommario, ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università La Cattolica di Milano, dal 2016 ideatore e curatore artistico del Piccolo Festival delle Spartenze – che si tiene ogni estate a Paludi, in provincia di Cosenza – studioso di emigrazione italiana e calabrese in particolare.
In questo mese su Italia che Cambia abbiamo deciso di raccontare storie di ritorno in Calabria e di concentrarci su questo filone tematico. Tu ti occupi di emigrazione, italiana e calabrese, e citi spesso “il mito del ritorno”. In cosa consiste e cosa comporta nella vita dell’emigrante?
La categoria del ritorno – e naturalmente anche del ritorno in Calabria, nello specifico – è una categoria mitica, che occupa la mente di chi sta fuori fin dalla sua partenza. Il mito del ritorno accompagna il migrante perché egli non può partire e lasciare la propria terra – se costretto – senza avere l’illusione di poter almeno un giorno ritornare. Il ritorno è una categoria mitica nella vita di chi parte.
Nella mia esperienza di ricerca, questo mito ha accompagnato quotidianamente la vita di queste persone, che ad esempio destinavano i risparmi fatti altrove alla costruzione di una casa nel paese di origine o che vivevano la propria esperienza fuori regione e fuori Italia come una parentesi in vista di un ritorno possibile. Questo comportava il rimandare tutto il bello della vita al ritorno al luogo natale. Ma spesso diventava una parentesi anche molto lunga.
A proposito di ritorno in Calabria, dici spesso che “ci sono diversi modi di tornare”, non soltanto quello permanente. Quali sono?
Ci sono vari modi di ritornare: il ritorno in presenza degli anziani, di coloro che vivono la loro fase produttiva altrove e tornano a vivere la tranquilla vecchiaia nei paesi calabresi e lo fanno senza investire in modo produttivo sul territorio. Il ritorno dei giovani. Il ritorno di chi cerca di essere presente il più possibile sul territorio, tentando di intavolare delle possibili iniziative che mettano insieme chi è partito, con le sue competenze e conoscenze, e chi è rimasto. Il ritorno 2.0 di chi cerca di tornare e attivarsi anche a distanza grazie ai mezzi online. Il ritorno di chi parte per un viaggio delle radici.
Proprio il turismo delle radici è un tema che sta emergendo recentemente, anche a livello istituzionale, e che tu stai analizzando grazie al progetto di ricerca “Scoprirsi italiani: i viaggi delle radici in Italia”, condotto dall’Osservatorio permanente sulle Radici Italiane (ORI) dell’Associazione AsSud. Di cosa si tratta? Abbiamo qualche dato?
I viaggi delle radici sono un modo di tornare e di portare attenzione sulle aree interne, che sono le zone da cui la maggior parte dei calabresi è partita. La domanda è: il turismo delle radici può da solo servire a rigenerare un paese? Non lo so, sicuramente significa lavorare anche per rendere quel territorio attrattivo. Bisognerebbe creare delle condizioni per far sì che questi posti siano adatti ad accogliere chi arriva sui luoghi.
Per applicare in maniera efficace il turismo delle radici servono delle pre-condizioni sul territorio (infrastrutture, collegamenti, servizi). Così il turismo delle radici può essere uno strumento per rilanciare alcune aree, se accompagnato da altre azioni. Per quanto riguarda i dati, possiamo dire che potenzialmente ci sono 7 milioni di viaggiatori delle radici calabro-discendenti e che il 90% sogna un ritorno in Calabria nell’ambito di un viaggio di questo tipo.
La mobilità, il partire e il tornare hanno causato contaminazione e mescolanza nelle comunità dei paesini in Calabria, come è accaduto a Lungro (paese arbëreshë in provincia di Cosenza) dove il mate argentino è diventata una bevanda tipica. In quanti modi le partenze possono influenzare i luoghi di origine?
La contaminazione è ciò che fa muovere il mondo ed è il principio base della mia ricerca, ma c’è anche tanta altra letteratura. Le partenze, ad esempio, influenzano i luoghi da cui si parte anche attraverso le assenze, le case vuote. Ma poi anche dal punto di vista economico, come ad esempio è successo a inizio Novecento, quando molte famiglie al Sud raggiungevano la pienezza alimentare grazie alle rimesse degli emigrati. Ovviamente la contaminazione c’è anche nei luoghi di arrivo: ad esempio la lingua argentina è influenzata tantissimo dall’italiano, sia dal punto di vista lessicale che ritmico. Partire e tornare mette in circolo qualcosa che non può non portare alla contaminazione.
Sei ideatore e direttore del Piccolo Festival delle Spartenze, che dal 2016 si tiene ogni anno a Paludi, tuo paese di origine. Vuoi raccontare ai lettori e alle lettrici di Italia che Cambia di che cosa si tratta e di cosa ti ha spinto a crearlo?
Il Piccolo Festival delle Spartenze per me è un altro modo per fare ritorno in Calabria. Io personalmente mi sono occupato di italiani e poi calabresi nel mondo. Per me, che non avevo la possibilità concreta di tornare, studiare era come immergermi in questo mondo e così anche il festival. Il termine “spartenze” non è un caso. La sua polisemanticità sintetizza tutto ciò che riguarda il festival: parla di partenze, ma anche di “spartire” – e quindi dividere, che ricorda le ferite create dai 2 milioni di calabresi che se ne sono andati –, ma allo stesso tempo “condividere”, come ci ricorda il termine “spartire” in italiano e ancor di più in dialetto calabrese.
Nelle giornate del festival organizziamo presentazioni di libri, conferenze, dibattiti e musica. Ha luogo anche il Campus AsSud, in cui si incontrano studenti universitari italiani con universitari stranieri e italo-discendenti, e la Notte dei ricercatori italiani, che ogni anno segue un tema e che porta diversi ricercatori italiani a Paludi. L’obiettivo del festival è raccontare le storie di chi è partito e di conseguenza raccontare un territorio. Ma serve anche a gettare un ponte fra chi è partito e chi è rimasto, dare speranza ai luoghi dell’origine e rimarginare la ferita che si è prodotta con le tante partenze.
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