La morte di Shireen e un conflitto che sembra un labirinto senza vie d’uscita
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Era marzo del 2015. Partii dall’Italia lasciandomi alle spalle il freddo invernale e venni accolto, insieme alla mia compagna di viaggio e di vita, dal tepore di una terra in cui il clima meteorologico e quello politico sono purtroppo quasi sempre di segno opposto: la Palestina. E Jenin, città martoriata dalla pressione poliziesca israeliana e culla sin dal 1948 per le migliaia di palestinesi senza terra, che hanno dovuto – e devono farlo ancora oggi – abbandonare da un momento all’altro casa, beni e affetti.
Proprio a Jenin, pochi giorni fa è stata uccisa Shireen Abu Akleh, giornalista americano-palestinese. Faceva il mio stesso lavoro. Quando i soldati dell’IDF le hanno sparato in faccia, calpestava l’asfalto dello stesso tratto di strada che percorsi io sette anni fa. Quel giorno eravamo andati a visitare una scuola media, suonando canzoni con bambini e bambine palestinesi. Poco distante, l’ospedale dove è spirata Shireen, che visitammo usciti dalla scuola.
Le immagini del suo corpo riverso a terra inerte fra le spighe che spuntano dal fosso a bordo strada mi hanno inflitto un dolore quasi fisico, tangibile. Il volto pietrificato di una sua collega, le urla dei soccorritori, la coraggiosa sortita di un civile palestinese per un disperato tentativo di salvataggio. E a fare da sottofondo, come un’inarrestabile e tragica colonna sonora, i colpi sordi dei fucili dei militari israeliani che spazzano la via come un vento mortale.
Shireen è stata assassinata mentre faceva il suo lavoro, indossando regolarmente il giubbotto antiproiettile con la scritta PRESS. È stata colpita al volto. Per diversi giorni i media occidentali – italiani in particolare – hanno preferito concentrarsi sulla guerra in Ucraina, più attraente dal punto di vista mediatico e meno scottante dal punto di vista politico.
Sulla ricostruzione della dinamica esatta si sta lavorando, pur fra le mille difficoltà di una verità che viene stiracchiata da un lato e dall’altro fino a diventare irriconoscibile. Ma le testimonianze delle colleghe e dei colleghi di Shireen Abu Akleh sono chiare: «Stavamo riprendendo», ha detto il reporter Ali al-Samudie, che era presente. «Non ci hanno neanche chiesto di smettere o di andarcene. Hanno sparato un colpo che mi ha colpito e un altro che ha ucciso Shireen a sangue freddo».
Il segretario generale di Reporter Senza Frontiere Cristophe Delorie ha dichiarato che «RSF non è soddisfatta della proposta del ministro degli esteri israeliano Yari Lapid di partecipare a un’indagine su quanto avvenuto. Deve essere lanciata un’indagine internazionale indipendente il prima possibile».
Eppure non è stato più possibile tacere quando questa triste vicenda è andata incontro al suo epilogo. Le rivoltanti immagini dei militari israeliani che caricano con i manganelli i palestinesi che trasportano il feretro di Shireen Abu Akleh hanno decretato il superamento di qualsiasi confine umanamente concepibile e ammissibile. Tutto ciò è successo a Gerusalemme, dove Shireen viveva. Una città che un secolo fa era un esempio positivo di convivenza e tolleranza e che dopo decenni di una politica urbanistica intenzionalmente discriminatoria è diventata il simbolo dell’apartheid ai danni dei palestinesi.
Nel corso della mia permanenza a Jenin ho avuto la spiacevolissima sensazione di aggirarmi all’interno di un labirinto, il labirinto di un conflitto da cui pare impossibile uscire. La cultura palestinese è intrisa di un misto di tristezza e fierezza, che emergono drammaticamente anche nei più giovani, legati all’idea di un futuro libero e indipendente così come un figlio è legato al ricordo di un padre che lo ha abbandonato tanto tempo fa e che – si illude – un giorno tornerà.
«Per adesso usiamo gli shekel – mi raccontava uno dei ragazzi a cui insegnavo inglese durante una discussione sul denaro – ma quando la Palestina tornerà libera avremo di nuovo la nostra sterlina». Quel giorno non arriverà mai per Shireen Abu Akleh. Probabilmente non arriverà mai neanche per me, per i miei figli e per i loro figli. Questa è l’opprimente sensazione che mi sono portato in Italia dopo aver toccato con mano ciò che sta succedendo in Cisgiordania.
Nonostante questo c’è molto che si può fare. In un momento in cui si parla tanto di pace, si può dare corpo a questa parola, assumendosi la responsabilità politica e morale di schierarsi dalla parte dei deboli e degli oppressi, coloro che in una guerra perdono sempre, a prescindere dall’esito militare della stessa.
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