Cersosimo: “Il Pnrr può essere l’ennesima occasione mancata per la Calabria”
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Da diverso tempo si parla ormai dei fondi del Pnrr e del Sud Italia. Molti si sono chiesti: può essere davvero un’occasione di crescita, un modo per colmare il divario con il Nord (così com’è stato dipinto)? Al riguardo infatti c’è un vero e proprio dibattito, con una visione critica all’interno: per molti il potenziale economico rischia di rimanere inespresso.
Ne abbiamo parlato con Domenico Cersosimo, docente di economia applicata all’Università della Calabria, che sta seguendo la vicenda e che ha risposto ad alcune domande riguardanti il Sud e in particolare la Calabria.
Vorremmo esaminare in modo approfondito la questione che riguarda i fondi del Pnrr e in particolare il Sud Italia. Prima di tutto ci puoi spiegare quanti fondi potrebbero arrivare al Sud e in cosa consiste la clausola del 40% sulle risorse finanziarie territorializzabili?
Non è possibile quantificare con certezza il flusso di finanziamenti Pnrr con destinazione Sud. Qualche mese dopo l’approvazione del Piano, su proposta del Governo, il Parlamento ha introdotto una norma che stabilisce che il 40% delle risorse finanziarie “territorializzabili” del Pnrr (206 miliardi sul totale di 235,1) dovrà essere indirizzato nelle regioni meridionali: in valore assoluto all’incirca 82 miliardi di euro, da utilizzare entro il 2026.
Si tratta tuttavia di un obiettivo programmatico, un’intenzionalità. Infatti, nel Pnrr le risorse pre-allocate nominativamente al Sud sono molte meno, intorno a 35 miliardi; le rimanenti dovrebbero arrivare attraverso meccanismi a “sportello” (incentivi alle imprese, superbonus edilizio), appalti e bandi competitivi a regia ministeriale. L’allocazione di risorse al Sud dipenderà dunque dalle capacità degli enti territoriali e delle imprese meridionali di vincere la gara competitiva con gli enti e le imprese del Centro-Nord. Ne consegue che l’ammontare preciso della distribuzione territoriale delle risorse lo sapremo ex-post, quando il Piano sarà concluso.
È possibile fare una stima anche dei finanziamenti che potrebbero arrivare in Calabria?
Per la Calabria è ancor più difficile una stima precisa delle risorse Pnrr che potrebbero arrivare. Le fonti ufficiali riferite allo scorso febbraio assegnano alla Calabria 3 miliardi dei circa 57 allocati a tale data nell’intero paese (il 5,3% e poco meno del 13% di quelli meridionali). Supponendo una ripartizione grossomodo basata sul peso demografico, alla Calabria potrebbero essere assegnati teoricamente 8-10 miliardi.
Si tratta evidentemente di una cifra meramente potenziale, dal momento che quella effettiva, come ho detto in precedenza, è legata alla capacità delle istituzioni e dei soggetti economici regionali di candidare progetti in grado di intercettare le risorse disponibili. Ripeto, solo una parte delle risorse è già nominalmente assegnata alla Calabria (ferrovie, porti, Zes, città..), l’altra parte, altrettanto cospicua, va “conquistata” partecipando ai bandi con progetti in grado di reggere la concorrenza dei soggetti di altre regioni, del Sud e del Centro-Nord.
Perché nella tua ottica questo piano non servirà a colmare il divario fra Nord e Sud, come invece è stato più volte annunciato?
Non è scontato né certo che i Comuni e le imprese meridionali saranno in grado di approntare progetti cantierabili e di qualità tali da vincere la concorrenza extra-meridionale. A rischio di apparire come un relitto del “vecchio Sud” agli occhi della ministra Mara Carfagna, che con un certo ardire considera la data di presentazione del Pnrr all’Europa (30 aprile 2021) come lo spartiacque tra un “prima” – il “meridionalismo disfattista e rivendicativo” – e un “dopo” – il meridionalismo ispirato a una visione “concreta, fattiva, operosa, orgogliosa” – francamente ad oggi mi sembra del tutto improbabile che ciò possa accadere.
Per questo motivo gli 82 miliardi per il Sud non sono altro, come scrive Gianfranco Viesti con un’espressione colorita, “un totale in cerca di addendi”. Devo aggiungere che l’idea di mettere a bando l’offerta di servizi essenziali mi sembra a dir poco bizzarra. Che senso ha mettere a bando gli asili nido quando è acclarato che è nel Sud che si concentra la carenza assoluta di strutture per l’infanzia? Perché mettere in competizione Reggio Emilia, una punta avanzata internazionale in tema di servizi per l’infanzia, con Cosenza, che invece è pressoché priva di tali servizi? Lo stesso discorso vale per le mense scolastiche, il tempo pieno, le palestre giacché lo svantaggio è tutto concentrato nel Sud.
Il problema dunque sembra essere anche la situazione in cui versano i Comuni meridionali. Qual è la loro situazione? Pensi che ci sia il rischio concreto che questi soldi tornino indietro?
Nell’attuazione del Pnrr i Comuni avranno un ruolo determinante: l’Ufficio parlamentare di bilancio ha stimato che saranno oltre 70 i miliardi a loro destinati. Come è noto tuttavia, nell’ultimo decennio i Comuni hanno subito un drastico tracollo del loro personale (all’incirca un terzo in meno nel Sud e in Calabria), a ragione delle politiche nazionali di forte contenimento della spesa pubblica. Per di più, il personale in servizio è caratterizzato da un’età media elevata (i due terzi oltre 50 anni) e da una bassa istruzione (meno di un quinto i laureati).
Senza un’adeguata dotazione di “giovani” ingegneri, geometri, economisti, informatici, sociologi è impossibile progettare alcunché. Ad aggravare ulteriormente il quadro di molti Comuni meridionali e calabresi è il loro livello di indebitamento: circa un terzo di essi è in dissesto o predissesto, che non consente né nuove assunzioni né il ricorso a progettisti esterni. D’altro canto, il reclutamento di tecnici ed esperti esterni a tempo determinato attraverso il Pnrr è del tutto insufficiente sotto il profilo quantitativo e spesso anche sotto quello qualitativo.
Dunque, il rischio che paventi nella tua domanda lo considero reale: è alta la probabilità che il Sud e la Calabria riescano ad “assorbire” una quota risorse inferiore a quella teoricamente possibile e che gli investimenti che si realizzeranno avranno impatti economici e sociali ben al di sotto delle attese. Noto con preoccupazione una mancanza diffusa di consapevolezza che il Pnrr possa trasformarsi in un’ennesima “occasione mancata” per ridurre il divario tra Nord e Sud e per migliorare permanentemente la qualità della cittadinanza dei meridionali e dei calabresi.
Una parte dei fondi del PNRR è dedicata alla Strategia nazionale per le aree interne, con delle indicazioni precise sulla destinazione d’uso che riguarda il potenziamento della sanità attraverso privati e infrastrutture di comunità. Pensi che sia una strategia adatta a queste aree o manca qualcosa? Di cosa c’è bisogno nelle nostre aree interne?
Parto dalla parte finale della domanda, dal bisogno le aree interne. Queste aree – che, lo ricordo, sono luoghi dove i residenti devono fare i conti quotidianamente con un grave deficit quanti-qualitativo di servizi essenziali (scuole, presidi sanitari, trasporti) che abbassa la qualità della vita – soffrono innanzitutto di una disuguaglianza di riconoscimento. Sono aree troppo a lungo abbandonate, trascurate dalle politiche pubbliche, sacrificate all’idea dominate che considera le città come il motore unico dell’innovazione, la densità e l’agglomerazione come incubatori esclusivi di futuro.
L’illusione metrofiliaca ha avuto conseguenze devastanti sulle aree interne: spopolamento, invecchiamento, sfilacciamento delle comunità locali, aumento delle fratture sociali ed economiche con il resto. Solo grazie alla Strategia nazionale delle aree interne (Snai), avviata in modo sperimentale qualche anno fa su impulso dell’allora ministro Fabrizio Barca, le aree in deficit di cittadinanza hanno conquistato una qualche attenzione istituzionale, anche se il quadro complessivo è ancora oggi di severa sofferenza per gli abitanti dell’Italia interna, sotto il profilo dell’accesso ai servizi pubblici e delle possibilità lavorative.
È dunque apprezzabile che nel Pnrr siano presenti finanziamenti destinati direttamente alle aree interne. E ancor più importante è che una parte di queste risorse siano destinate a potenziare la rete dei servizi sanitari attraverso la realizzazione di Case e ospedali di comunità (oltre 100 milioni già allocati in Calabria) e di altre strutture di medicina territoriale. Si tratta di un segnale incoraggiante dopo anni e anni di tagli e dismissioni nella sanità regionale, la chiusura o il ridimensionamento di ospedali di montagna e strutture ambulatoriali, di riduzione dell’organico di medici e infermieri, di riduzione di servizi e di crescita delle inefficienze gestionali.
Per quanto riguarda la salute e la sanità non si parla di potenziamento di ospedali, terapie intensive e organico, ma di percorso integrato dalla casa agli ospedali di comunità. Come vedi questa scelta in rapporto alla sanità calabrese e cosa comporterà?
Vedo con molto favore il passaggio dal modello ospedale-centrico a quello della medicina territoriale, in Calabria e nel resto del paese, soprattutto dopo il fallimento che abbiamo visto nel fronteggiare lo choc pandemico. Ben vengano dunque le Case di comunità come luogo fisico di prossimità e di facile individuazione per le popolazioni locali.
Le domande che mi pongo invece sono: riusciranno le Case di comunità a diventare il nodo della rete dei servizi territoriali e a governare tanto la domanda di servizi di cura e salute quanto l’offerta integrata multi-professionale? Saranno davvero strutture di prossimità? Saranno congrue con i bisogni integrati di salute della popolazione? Ci sarà personale sufficiente e adeguatamente preparato per il nuovo modello organizzativo? Domande maledettamente difficili ma decisive per le sorti delle Case e soprattutto dei cittadini (si veda in proposito il recente rapporto di Cittadinanzattiva).
In Calabria è previsto l’avvio di 57 Case di comunità (1.350 in Italia), 15 Ospedali di comunità (400 in Italia) e 19 Centrali operative territoriali (600 in Italia), con un investimento complessivo di circa 130 milioni di euro. Numeri e risorse apprezzabili, ma molto dipende dal coinvolgimento delle popolazioni locali e dall’implementazione operativa e gestionale, soprattutto in Calabria, dove sia l’una che l’altra mostrano gradi di arretratezza da primato. E conta moltissimo anche la loro dislocazione geografica, ovvero la loro localizzazione prioritaria in aree, come quelle interne, dove i bisogni sono più acuti e le strutture meno presenti.
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