8 Apr 2022

Dov’è finito il litorale italiano? Viaggio lungo le coste mangiate dal cemento

Scritto da: The Climate Route APS

Una percentuale preoccupante delle coste italiane è ostaggio dell'azione antropica, che sta provocando effetti devastanti in termini di erosione e alterazione degli equilibri naturali. Camilla Tuccillo e Stefano Cisternino propongono un'analisi su questo aspetto con un focus sulla Sicilia, una delle regioni più colpite da questo fenomeno e prima tappa del percorso di The Climate Route APS nel suo viaggio attraverso gli effetti del cambiamento climatico.

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Il litorale italiano si tinge di verde in presenza di paesaggi naturali o agricoli e di rosso quando la costa è stata aggredita dal cemento, ma in certi luoghi il primo colore scompare del tutto. Stando ai dati dell’Osservatorio Paesaggi Costieri Italiani, sul territorio nazionale solo il 37% delle coste si può considerare naturale. Il 12% è occupato da terreno agricolo e la restante percentuale da paesaggio antropizzato di diverso tipo – 11% industriale e portuale, più in generale infrastrutturale, 14% urbano ad alta densità e 26% urbano a bassa densità.

La Sicilia, con il 61% delle coste a rischio erosione, è una delle regioni italiane in cui si registrano i numeri peggiori e i pericoli maggiori per il prossimo futuro. È anche per questo che The Climate Route APS l’ha scelta come meta per documentare tanto la rapidità dei cambiamenti in atto quanto la presenza di luoghi che presto potrebbero non esistere più. L’erosione delle coste e l’associata desertificazione sono fenomeni complessi da più punti di vista (dalle cause alle conseguenze, dalla gestione alla prevenzione) e per comprenderli vanno considerati tutti. Per farlo, durante la spedizione della scorsa estate, i volontari e le volontarie dell’associazione hanno interpellato diversi stakeholders, alcuni legati all’ambito della tutela e della conservazione, altri al turismo e all’imprenditoria.

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L’EROSIONE DELLE COSTE

L’ambiente costiero costituisce un sistema dinamico, in continua e incessante trasformazione, in cui i fenomeni di arretramento e avanzamento della linea di costa rappresentano la normale evoluzione nel tempo. Sebbene quindi l’erosione sia dovuta anche a fattori naturali, quella «che vediamo verificarsi oggi è provocata più che altro da interventi antropici che alterano il regime di formazione delle spiagge», spiega l’associato Legambiente Enzo Bontempo. 

E i report redatti negli anni dalla stessa Legambiente e da Ispra lo confermano: il consumo di suolo è ascrivibile all’urbanizzazione selvaggia, quindi alla massiccia presenza di abitazioni – spesso abusive –, agli stabilimenti balneari e turistici, ai poli industriali e alle molto diffuse strade di lungomare e linee ferrate a pochi metri dall’acqua. Anche le opere di difesa – costruite proprio per proteggere le coste dall’erosione causata dal mare – hanno causato la perdita di ingenti volumi di spiaggia, creando disequilibrio con il contesto circostante e il serio pericolo di danneggiare un patrimonio dal valore inestimabile e dai colori irripetibili, come testimoniano le immagini del breve documentario di The Climate Route visionabile di seguito.

IL PARADOSSO DELLA DIFESA

Soprattutto negli ultimi decenni dello scorso secolo, le principali soluzioni di protezione dei litorali e di contenimento del dissesto per erosione adottate dalle amministrazioni sono state in prevalenza opere di difesa costiera “rigide”, ossia strutture fisse capaci di interferire con il moto ondoso e di limitare gli effetti dannosi delle mareggiate. Nella pratica però barriere frangiflutti, pennelli e scogliere hanno dimostrato di avere un forte impatto ambientale e paesaggistico sui litorali e che addirittura incrementano alcuni dei moti ondosi da contrastare.

Ciò si verifica soprattutto quando tali strutture vengono costituite, come nella maggior parte dei casi reali, da interventi di carattere emergenziale e quindi con una scarsa pianificazione alle spalle. Nel 1995 la Sicilia era la regione italiana con il più alto numero di “opere rigide”, alcune costruite per la difesa delle coste e altre, come porti e approdi, per lo sviluppo – in media una per ogni chilometro di costa, secondo l’Osservatorio sopracitato.

L’AGGRAVANTE DEL CLIMA

La profonda cementificazione ha alterato la naturale dinamica litoranea ed è reale il rischio che i cambiamenti climatici in atto inaspriscano ulteriormente il fenomeno. Una delle minacce più preoccupanti è la desertificazione, processo in forte crescita che porta a degradazione dei suoli e scomparsa della biosfera.

Per continuare a vivere così come, tutto sommato, ci piace dobbiamo iniziare ad aver cura dei luoghi

Il suo legame con l’erosione delle coste chiama in causa le precipitazioni e viene spiegato alle telecamere di The Climate Route sempre da Enzo Bontempo: «La quantità di acqua nel corso dell’anno rimane inalterata, solo che invece di essere distribuita in modo omogeneo precipita tutta in una volta: questo fatto [insieme ad altri, n.d.A.] innesca un processo di desertificazione. Un terreno siccitoso senza alberi né vegetazione è debole e quando si verificano eventi estremi [proprio come le forti piogge sporadiche, ma anche le mareggiate e le trombe d’aria n.d.A.] il suolo viene eroso più facilmente dall’acqua».

TURISMO: DA CAUSA A VITTIMA

Uno dei fattori che hanno portato oltre metà del litorale italiano a non poter essere più considerato paesaggio naturale è sicuramente il turismo, settore importantissimo per l’economia del Paese. Anche in questo caso però, proprio come è successo per la difesa delle coste, si tratta di un enorme paradosso: l’erosione costiera è un fattore estremamente limitante per il turismo stesso.

The Climate Route APS ne ha trovato testimonianza in uno dei punti più occidentali dell’isola: la Riserva di Monte Cofano, situata nei comuni di Custonaci e San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani. «La costa del Golfo di Cofano è cambiata: ci sono alcuni punti in cui l’erosione è evidente, i danni sono visibili soprattutto dove si trova la Cappella del Crocifisso», spiega Giacomo Noto, imprenditore locale e guida. Poi continua: «Bisognerebbe intervenire in tempi molto più brevi: la riserva è chiusa dal 2017; siamo nel 2021 e ancora non si parla di riaprirla. È una perdita per chi possiede attività commerciali, soprattutto per chi vive di turismo”.

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HEIMAT E I LUOGHI DELL’INFANZIA

Questa concatenazione e le altre affrontate stanno aumentando la consapevolezza che la soluzione al problema – o meglio, una delle tante possibili – si possa ritrovare nel problema stesso: preservare i luoghi non evitandoli ma facendo loro visita in maniera rispettosa e altruistica. Lenta, in altre parole. 

Il cosiddetto turismo lento è la forma con cui i ragazzi e le ragazze di Va’ Sentiero hanno deciso di attraversare l’Italia – quella interna soprattutto – e Yuri Basilicò, founder, guida e project manager del progetto, ne rivela il perché: «Il mondo e le montagne cambiano nel tempo; il paesaggio cambia e si modella. È chiaro che questo cambiamento è in buona parte non determinato dal corso naturale delle cose, ma dalla mano nefasta dell’uomo. Un’esperienza come Va’ sentiero può certamente contribuire a diffondere la pratica del turismo lento e soprattutto a indirizzare il flusso turistico lento e quindi consapevole in alcune aree che hanno sicuramente bisogno di essere vissute così».

Sono gli esseri umani i principali bersagli dell’erosione delle coste, della desertificazione e di tutti i cataclismi prevedibili e ancora di più lo sono le nostre attività e i nostri interessi. Per continuare a vivere così come, tutto sommato, ci piace – per continuare ad andare in vacanza, a godere degli incredibili paesaggi del nostro Paese, dei suoi gusti, delle sue tradizioni e delle sue storie – dobbiamo iniziare ad aver cura dei luoghi.

«C’è una parola che mi ha molto colpito durante il viaggio, che è “heimat”: è una parola di origine tedesca e viene usata per descrivere l’attaccamento [ai luoghi, n.d.A.]. Non è una forma di patriottismo, è più un amore per i luoghi dell’infanzia, dove si sono vissuti momenti della propria esistenza; quindi un amore pratico, tangibile. Vivere in un luogo significa pian piano conoscerlo, innamorarsene e quindi essere motivati a prendersene cura», dice Yuri.

E i volontari e le volontarie di The Climate Route APS sperano di essere una piccola dimostrazione di come “heimat” possa essere un modo di pensare e agire concreto, iniziando dalla nostra casa e finendo in ogni posto del mondo. Per avere un quadro più completo dell’importanza del contrasto al cambiamento climatico, leggi anche l’articolo sugli incendi in Sicilia di The Climate Route ASP. 

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