5 Apr 2022

Siamo stati in Ucraina con la carovana di pace nonviolenta: Stop the war now!

Scritto da: Francesco Bevilacqua

Il nostro caporedattore Francesco Bevilacqua ha partecipato alla carovana che ha coinvolto decine di realtà laiche e religiose coordinate dalla Comunità Papa Giovanni XXIII e che ha portato a Leopoli aiuti e beni di prima necessità, per poi tornare accompagnando in Italia profughi in fuga dalla guerra. Ecco le sensazioni, le emozioni e la cronaca di questi tre giorni.

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Sono le 6 di mattina. La gelida luce di un’alba di primavera comincia a illuminare di azzurro la periferia di Gorizia. Il grande parcheggio a poche centinaia di metri dal confine sloveno è in fibrillazione. La carovana di pace coordinata dallo staff dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII si sta preparando per partire.

Siamo più 220 persone, 62 mezzi – auto, minivan, camper, addirittura il pullman della Vittoria –, decine di associazioni del mondo parrocchiale e di quello antagonista, del terzo settore e della cooperazione internazionale, giornalisti e giornaliste, foto e video reporter, c’è anche una troupe che lavora per la Rai.

Un universo più che mai eterogeneo e variegato che da strade diametralmente opposte ha trovato la capacità di convergere in un luogo fisico, ma soprattutto ideale, per parlare e praticare la pace e la nonviolenza e per offrire il conforto della presenza, dello “stare accanto”, a un popolo che, al di là di ogni lettura geopolitica che si può dare di questa guerra, in questo momento sta patendo atroci sofferenze.

«Se sono malato – dice il presbitero e attivista Tonio dell’Olio nel parcheggio pochi minuti prima della partenza – traggo grande conforto da una semplice presenza amica. Magari non sarà un medico capace di curarmi e la mia malattia non verrà guarita, ma anche solo avere qualcuno accanto mi fa stare meglio».

Partiamo dunque non per far cessare una guerra, ma per apporre un piccolo tassello in un mosaico di pace e per stare accanto a persone la cui vita sta subendo traumi forse irreversibili. La carovana porta in Ucraina, a Leopoli, quintali di beni di prima necessità – cibo, assorbenti, pannolini, medicinali, giochi, prodotti per l’igiene – e tornerà con profughi e profughe in fuga dal fronte orientale.

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Il briefing prima della partenza

In macchina con me ci sono Massimo ed Enzo – rispettivamente presidente e socio dell’associazione Nova, che si occupa di adozioni internazionali – e Michele, studente e giornalista freelance. Il viaggio scorre via tranquillo. Attraversiamo la Slovenia, l’Ungheria, la Slovacchia ed entriamo in Polonia, dove ci fermeremo per la notte. La mattina dopo, ancora prima dell’alba, la carovana si ricompatterà al confine ucraino per passare la frontiera presso Korczowa.

In auto parliamo di ciò che ci aspetta e del percorso che ci ha portato sin qua. Ciascuno di noi ha una visione leggermente differente del pacifismo, come se stessimo osservando tutti lo stesso soggetto da luoghi diversi. Cerchiamo una sintesi fra le nostre posizioni, un punto d’incontro equidistante fra la rispondenza agli ideali a cui ci ispiriamo e la loro applicabilità nel mondo in cui viviamo. Un esercizio decisamente arduo.

Passano le ore e centinaia di chilometri di asfalto si srotolano sotto le ruote del nostro minivan, che comincia ad accusare la stanchezza quasi quanto noi. Nella prima serata di venerdì siamo a Przemisl, dove passeremo la notte. Proprio qui, meno di un mese fa, Matteo Salvini fu protagonista di un controverso episodio che altro non è che la lampante testimonianza della distanza siderale che separa il palazzo dalla strada, della colpevole disinvoltura con cui la politica maneggia le vite di milioni di persone come fossero pedine su uno scacchiere.

Il mattino seguente, all’alba delle 4, ha inizio il supplizio del passaggio della frontiera. Lo ripeteremo la sera stessa e ci porterà via quasi 9 ore fra l’ingresso e l’uscita. Altri equipaggi della carovana non saranno così fortunati. Nel bel mezzo delle procedure, un funzionario lascia il gabbiotto appena prima di controllare i nostri passaporti. Pronto a dare libero sfogo a lamentele e proteste, vengo immediatamente ridimensionato dallo schermo del suo telefono, che mi mostra con la faccia tirata. Il traduttore simultaneo riporta: “Abbiamo bisogno di 15 minuti per il cambio turno, stiamo lavorando ininterrottamente da 24 ore. Scusate”.

Sbrigate le formalità doganali partiamo in colonna verso Leopoli. A destra e a sinistra della strada milioni di spighe di grano si lanciano verso il cielo plumbeo. Davanti ai miei occhi scorre una realtà dura, come il volto di una persona che cerca di nascondere con un’apparente tranquillità un dolore che le tormenta le viscere, un cancro che sta progredendo e piano piano sta compromettendo i suoi organi interni.

I sintomi appaiono più evidenti dopo pochi chilometri, quando cominciamo a oltrepassare un check point dopo l’altro. Postazioni improvvisate costituite da sacchi di sabbia, muri a secco, cavalli di frisia e reti di filo spinato. Molte di esse sono poste all’imbocco delle stradine che conducono ai paesi disseminati lungo la statale, disperato tentativo di difendere gli abitanti da eventuali attacchi via terra. Non sono rare le bandiere rossonere di Pravy Sektor, piantate qua e là lungo la strada come a testimoniare l’animo multiforme, a volte confuso, del popolo ucraino.

Nel giro di un’oretta raggiungiamo la periferia di Leopoli. La prima tappa è il cantiere di un palazzo in costruzione, le cui cantine buie vengono utilizzate come magazzino sicuro per i beni di prima necessità. Decine di mezzi vengono parcheggiati nel piazzale fangoso e centinaia di mani si mettono all’opera.

Prima di rimboccarmi anch’io le maniche mi concedo qualche minuto per osservare una delle scene più belle di questi giorni intensi, forse quella che meglio rappresenta il senso di quello che stiamo facendo. Si crea una catena umana fra i bagagliai delle vetture e il deposito. Un pacco dopo l’altro, i beni viaggiano passando di mano in mano. Un prete passa uno scatolone a un’attivista di un centro sociale, che lo passa a sua volta a un pensionato, che lo passa a un reporter, che lo passa a un cooperante di una ONG, che lo passa a una suora, che lo passa a uno studente…

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Lavoriamo tutti e tutte insieme. Ci sono entusiasmo e ottimismo, la tensione del viaggio si scioglie in un attimo, gli animi diventano più leggeri di pari passo con le schiene che si fanno più doloranti. Un cane ci osserva stancamente dalla sua cuccia e mi ricorda l’insegna del furgone di tre ragazze spagnole che abbiamo incontrato in dogana: una croce rossa accanto a un cane, sormontati dalla scritta “Save the animals of Ukraine”.

La tappa successiva è il seminario. Ci sistemiamo nella grande palestra che ospiterà chi stanotte si fermerà a dormire a Leopoli per accogliere e caricare il gruppo di rifugiati in arrivo da Mariupol e ripartire l’indomani. Intorno alle 15 ci si sposta nell’auditorium per l’incontro con alcune personalità civili e religiose. Per i molti equipaggi che partiranno stasera è l’ultimo impegno prima di mettersi in auto per raggiungere la stazione dove convergono ogni giorno migliaia di cittadini e cittadine provenienti dalle città della parte orientale del Paese, dove infuriano le ostilità.

Mentre ci avviciniamo alla stazione le nostre app che segnalano l’allarme bombardamenti si attivano. Abbassiamo il finestrino e udiamo la sirena echeggiare per le vie della città. Pochi suoni evocano la guerra in modo più inequivocabile e diretto. Quando scorgiamo da lontano l’imponente sagoma novecentesca della hall dello scalo ferroviario di Leopoli-Holovnyj le mie vene pulsano frenetiche e la tensione, già alta, trova grottescamente sfogo in una serie di improperi che accompagnano una situazione di una banalità quotidiana che stride in un simile contesto: non troviamo parcheggio!

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La stazione di Leopoli

Il problema si risolve in fretta fortunatamente. Attraversiamo il piazzale studiando i volti dei suoi abitanti. Drappelli di soldati armati scrutano severamente la folla. Volontari e volontarie della Croce Rossa e delle ONG locali regalano sorrisi e bevande calde per tentare di confortare chi dopo molte ore di treno si è lasciato alle spalle la propria città, la propria casa, la propria vita. In un mare di desolazione ritrovo la speranza in un gruppo di bambini che giocano, scherzano e ridono sotto gli occhi vigili e preoccupati delle mamme e delle nonne. “Sapranno costruire un mondo più umano?”, mi chiedo mentre ci avviciniamo all’ingresso della stazione.

Sulle scale c’è una gran ressa. Pigiato fra la folla osservo da pochi centimetri di distanza gli sguardi dei profughi che stanno transitando. Quando vedo le loro lacrime non riesco a trattenere le mie. Subito mi copro la faccia con il fazzoletto e faccio finta di soffiarmi il naso per cercare di nascondere come mi sento, anch’io vittima di una cultura disumanizzante che ci ha insegnato a celare e reprimere le emozioni, specialmente quelle che ci fanno apparire deboli. “Che sia anche questa la causa di ciò che sta accadendo?”, mi chiedo di nuovo tentando di decifrare le scritte in cirillico del tabellone degli arrivi.

Una ragazza di un’associazione locale che organizza l’accoglienza dei profughi ci conduce in una sala d’aspetto riservata. È quasi vuota: le famiglie sono nel rifugio per via dell’allarme che è scattato poco prima e ne approfittiamo per fare il matching fra i profughi e gli equipaggi che partiranno entro sera. Salutiamo quelli che invece si fermeranno a Leopoli fino a domani. Loro escono e iniziano una marcia silenziosa e composta verso il centro città. Senza simboli, ma con sciarpe bianche recanti un’invocazione tanto disperata quanto vitale: #stopthewarnow.

Partiamo dunque non per far cessare una guerra, ma per apporre un piccolo tassello in un mosaico di pace e per stare accanto a persone la cui vita sta subendo traumi forse irreversibili

Sara, Elisa e Alessandro della Comunità Papa Giovanni XXIII e le volontarie delle associazioni ucraine svolgono un lavoro brillante e febbrile per distribuire le famiglie sui vari mezzi della carovana. Il compito è arduo perché vanno tenute presenti le esigenze logistiche del viaggio, si cerca di non dividere le persone con dei legami di parentela o amicizia e soprattutto va garantita una sistemazione consona in Italia.

Il mio compagno di viaggio Michele ne approfitta per intervistare le tre giovanissime volontarie che da dietro un bancone distribuiscono panini e bevande. Sono scappate dalle loro città all’inizio dell’invasione e, giunte a Leopoli, hanno deciso di mettersi a disposizione per supportare tutte le altre persone che oggi si trovano nella stessa situazione.

Dopo un’oretta di lavoro il nostro tetris si conclude. Sara ci comunica che porteremo in Italia una signora partita ieri da Kremenčuk con sua nipote, che ha dovuto abbandonare i genitori. Vlad, un volontario locale, ci porta da loro, vicino al tendone della Croce Rossa nel piazzale della stazione. Mi attardo un attimo per distribuire alcuni giocattoli che i miei figli mi hanno dato prima della partenza dall’Italia chiedendomi di regalarli ai loro coetanei ucraini.

Seguendo il vociare allegro di Massimo raggiungo di nuovo il gruppo e cominciamo a caricare i bagagli sul pulmino. Abbiamo fatto stillare la nostra goccia in un mare sconfinato. Chiudo gli occhi e immagino i cerchi concentrici che si moltiplicano sul pelo dell’acqua e piano piano allargandosi si diradano fino a scomparire. Ha avuto senso tutto questo? Ha inciso anche solo in minima parte sulla realtà? Riapro gli occhi e guardo i volti sorridenti delle nostre passeggere. Sì, ha avuto senso.

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«Sabato sera – scrive ai partecipanti Alberto Capannini di Operazione Colomba, uno dei coordinatori – ci hanno spiegato che nella tradizione Ucraina c’è una piccola bambola chiama motanka, che ogni famiglia tiene in casa: la bambola la protegge dal male. Ce ne hanno regalate alcune dicendoci: “Siete voi la nostra protezione con quello che avete fatto. Giri questa medaglia a ognuno di voi, tenetela stretta e siatene fieri!”».

Domenica in tarda serata arrivo a casa. Mi rendo conto della fortuna che ho mentre in punta di piedi mi aggiro per le stanze buie e scorgo fra le coperte i miei figli che dormono beati fra le braccia della mamma. È grazie a lei che sono partito – «perché non vai?», mi aveva pungolato quando abbiamo ricevuto entrambi il volantino con la call della carovana della pace – ed è per lei che sono tornato. L’albero è uno dei simboli più utilizzati per rappresentare l’idea di pace, ma senza radici solide e profonde neanche la pianta più robusta può stare in piedi.

È molto probabile che a tanti e tante di voi questo racconto risulti un po’ retorico, se non addirittura melenso. Forse è così e rileggendo ciò che ho scritto me ne rendo conto. Ma è davvero ciò che sento dentro e che vorrei trasmettere a voi che leggete. E poi credo che le emozioni siano un germoglio da piantare e da fare crescere curandolo e innaffiandolo con le parole – e con le immagini, la musica, il contatto fisico e a volte anche il silenzio – perché esse sono ciò che più di tutto ci rende esseri umani. E oggi abbiamo un disperato bisogno di umanità.

Per contribuire e sostenere le attività della campagna #stopthewarnow cliccate qui.

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