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Grande è la confusione sotto il cielo e ancora di più lo è quando si parla delle RSA, ovvero delle residenze sanitarie assistenziali, che sono state le tristi protagonisti della pandemia di Covid-19 – e lo sono tuttora, anche se in modo diverso. Districarsi nel labirinto di informazioni che riguardano queste strutture è molto complesso, anche perché non esiste un vero e proprio flusso di dati amministrativi legati alle prestazioni sanitarie all’interno delle RSA né un sistema di comunicazione consolidato. La babele di sigle e differenti strutture contribuisce a stratificare e a rendere ancora più nebulosa la questione, perché oltre alle RSA esistono anche altri tipi di strutture.
A oggi possiamo dire che, secondo un’indagine pubblicata da Auser nel 2011, in Italia ci sono 6.715 strutture residenziali, sommando le RSA, che sostengono pazienti non autosufficienti e non assistibili a domicilio, e le RA, ovvero le residenze assistenziali come case di riposo e alloggi di comunità che operano al di fuori del SSN. Possono essere pubbliche, private convenzionate o completamente private. A queste vanno aggiunte 700 “case fantasma”, completamente private, che non sono presenti negli elenchi regionali né in quelli comunali. Secondo i dati raccolti dal Comitato Felicita, oggi esistono 300.000 posti letto fra tutte le strutture esistenti, di cui il 70% adibito all’assistenza per anziani – il 12% all’assistenza psichiatrica, il 17% ai disabili psichici e fisici e l’1% ai pazienti terminali.
È in questi luoghi, ad ogni modo, che migliaia di persone sono morte fin dall’inizio della pandemia. Secondo un report dell’ISS, dal 26 marzo al 5 maggio 2020 sono decedute 9154 persone all’interno delle 3417 RSA prese in esame, di cui il 7,4% risultate positive al Covid-19 e il 33,8% con sintomi simil-influenzali. Non ci sono ulteriori dati concreti, viste le difficoltà a reperirli da parte delle istituzioni e quelle oggettive di inizio pandemia a testare la positività al Covid.
Oggi però si può dire che i decessi sono calati, secondo l’ISS grazie anche alla copertura fornita dai vaccini. Nell’ultimo report redatto dall’Istituto Superiore di Sanità, che prende in esame 843 strutture residenziali nei mesi che vanno dal dicembre 2020 al gennaio 2022, viene segnalato che «dalla metà di aprile 2021 in poi la percentuale di decessi scende a valori molto bassi, sui quali si mantiene anche nel corso della nuova ondata del dicembre 2021 e gennaio 2022, pur a fronte di un numero elevato di contagi».
Tuttavia le RSA e in generale le strutture residenziali sono ancora al centro di criticità legate alla pandemia e a questo modello di assistenza: nonostante il calo dei decessi e un decreto legge (quello del 24 dicembre) che permette a familiari e caregiver con greenpass di fare visita ogni giorno ai loro parenti che vivono in struttura, in questi mesi ci sono state diverse segnalazioni di chiusure arbitrarie da parte di alcune strutture o restrizioni alle visite. Associazioni e comitati spontanei, come Felicita o Comitato Parenti di Anziani in Rsa di Torino, continuano a raccogliere e diffondere testimonianze di familiari che, a distanza di due anni dalla pandemia, chiedono di poter riabbracciare i loro cari perché anche questo è parte integrante della loro salute.
Già nel settembre 2020 il Garante nazionale delle persone private della libertà aveva affermato: «Non si può privare le persone dei loro affetti per il loro bene dal punto di vista sanitario… Per tutti i disabili il contatto diretto è una questione essenziale, altrimenti c’è un arretramento cognitivo che fa perdere mesi o anni di lavoro già fatti». E appena qualche settimana fa, Alessandro Azzoni, presidente del Comitato Felicita, durante un convegno ha denunciato che «nulla è cambiato: gli anziani sono tuttora isolati e subiscono gravi danni psicofisici, molti si lasciano andare, perdono l’autonomia, peggiorano le facoltà cognitive».
Tutto questo dunque perdura, a due anni di distanza dal primo lockdown e nonostante una campagna di vaccinazione che sarebbe dovuta servire proprio a tornare a una presunta normalità. Ma il problema è alla base e l’emergenza Covid non ha fatto altro che metterlo in risalto: «Bisogna riformare queste strutture che oggi sono veicoli di business e cambiarne la logica, facendo un ragionamento più ampio», afferma Domenico Pantaleo, presidente dell’Auser (Associazione per l’Invecchiamento Attivo), «Bisogna favorire nei limiti del possibile il fatto che gli anziani possano stare a casa e ragionare su medicina territoriale, integrazione sanitaria e socio-assistenziale, prevenzione».
Ma, laddove non fosse possibile evitare il ricovero, bisogna lavorare sulle criticità per trovare una soluzione: «Noi immaginiamo luoghi dove gli anziani non vengano parcheggiati, ma dove possano godere di convivialità, attività culturali, scambio con le nuove generazioni, ma che siano anche centri di servizi aperti all’esterno», continua Pantaleo.
«Allo stesso tempo devono migliorare gli standard qualitativi di questi posti, con strutture più piccole (mini appartamenti), incremento delle professionalità e delle ore dedicate all’assistenza, garantire insomma il rispetto dei LEA», i Livelli Essenziali di Assistenza stabiliti negli articoli 30 e 34 del DPCM 15/2017. Per questo Auser ci tiene a sottolineare che «la questione delle RSA va collocata all’interno di una riflessione più ampia sul modello socio-assistenziale» e che «bisogna cambiare un sistema che non regge».
Nel frattempo, il Ministero della Salute in questi anni di pandemia ha nominato due commissioni: quella presieduta dal Monsignor Vincenzo Paglia, che si occupa della riforma dell’assistenza, e la Commissione presieduta dall’ex Ministra della Salute Livia Turco, che si occupa di un piano sulla non autosufficienza. «Le due cose hanno bisogno di una forte interazione» ed è per questo che Auser e tante altre associazioni di settore, sono state audite con la possibilità di portare proposte frutto di esperienza e anni di impegno. Ora la questione è in mano al Governo. Riusciremo a venirne a capo?
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