Letizia Battaglia, la fotografa che ha raccontato l’orrore della mafia con gli occhi di una bambina
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Palermo - Ho appreso la notizia della sua scomparsa poche ore dopo, ero per strada e per un attimo il mondo si è fermato. Un mio caro amico mi ha scritto: “È morta Letizia Battaglia”, ho aperto subito Repubblica Palermo, ma non c’era traccia di questa notizia. Dopo poco ho capito che era l’apertura di quasi tutti i quotidiani nazionali.
Una notizia che, come non smettevo di ripetere ai miei amici, mi ha colto come un fulmine a ciel sereno, perché proprio non me l’aspettavo, anche se poi in tanti mi hanno raccontato che da un po’ di tempo Letizia stava male, era in sedia a rotelle e non fumava più. Ho subito condiviso la notizia su con amici e colleghi e uno di loro mi ha risposto: “Mi viene da piangere”. Quando ho letto queste parole mi è venuto un nodo in gola. È la fine di un’epoca.
Aveva 87 anni e anche questo non lo sospettavo per nulla: per me lei era senza età, eterna ragazza. Sono una giornalista di Palermo cresciuta e pasciuta negli anni della guerra di mafia, quando la mattina mi alzavo dal letto non sapevo mai cosa aspettarmi perché le morti atroci erano la quotidianità per noi, un triste e litanioso rosario che si sgranava e che quasi non faceva più notizia. Noi cercavamo di andare avanti perché avevamo voglia di normalità, una normalità che però non ci apparteneva. Noi in quegli anni eravamo votati alla disperazione.
Una disperazione che però si trasformò in un’esplosione di riscossa civile subito dopo le stragi del ’92, quando tutti scendemmo in piazza stanchi e inorriditi per quello che era successo ai due magistrati Falcone e Borsellino, che avevano dato speranza e dignità a questa città. Per la mia generazione quelle morti segnano uno spartiacque tra l’età della fanciullezza e quella adulta.
Scoprimmo che i “cattivi” esistevano veramente e non solo nei cartoni animati giapponesi che guardavamo in tv. Per quanto mi riguarda, mi marchiò a fuoco e per sempre il giudice Caponnetto quando, subito dopo l’uccisione di Borsellino, dichiarò: «È finito tutto». Per Una bambina di 12 anni che, apprendendo una notizia sconvolgente, sperava in parole di conforto, quelle esternazioni pesarono come un macigno. Pensai che la Sicilia non sarebbe mai più uscita da quelle maglie così strette di oppressione mafiosa.
Quegli anni di morti ammazzati e di faide mafiose tra palermitani e corleonesi, quando un giorno a essere ucciso era un magistrato, poi un giornalista, poi un imprenditore. Per paura non si parlava di temi come mafia e pizzo apertamente, così Letizia Battaglia li documentò con la sua macchina fotografica, diventando un simbolo di quel periodo storico. Lei non fotografava solo i morti ammazzati, ma anche Palermo e i quartieri, i suoi abitanti e le sue bambine, con una capacità di cogliere l’attimo carico di essenza e identità che l’ha consacrata come immortale fotografa del capoluogo siciliano.
Lei diceva di «fare reportage vivendo nella sua città», un viaggio lungo una vita. In un’intervista dichiarò che aveva lavorato in diverse parti del mondo, ma che solo a Palermo le venivano bene le foto e io ci credo. Negli anni in cui lei l’ha fotografata, questa città è stata miseria, volgarità, decadenza, ma anche tanta umanità ed è quella che dava speranza a un mondo che sembrava irredimibile. Le sue tanto amate bambine rappresentavano proprio quella speranza di cui c’era tanto bisogno, allora come ora.
Le sue foto venivano pubblicate sul giornale L’Ora, anch’esso un simbolo di un giornalismo senza padroni che perseguiva solo la verità e che rendeva orgogliosi e fieri tutti i palermitani onesti. Nel ’92 L’Ora chiuse i battenti, ma Letizia Battaglia continuò a fotografare, la sua fama era ormai internazionale.
L’ho intervistata un paio di volte al telefono per alcuni dei suoi progetti, a fatica, perché era incontenibile. Un vulcano inarrestabile di idee, coraggio, proposte e sogni. Nonostante avesse fotografato il periodo più buio e spaventoso di Palermo, nell’animo era rimasta una bambina, avida di vita, bisognosa di fare sempre cose nuove, un’entusiasta per natura che trascinava con sé tutti e tutto.
Era bello incontrarla in giro per la città con la sua immancabile sigaretta sempre accesa, i capelli colorati di rosa o di azzurro, i suoi camicioni larghi e la macchina fotografica. La vedevo spesso alla torrefazione Stagnitta e anche ai Cantieri Culturali, dove aveva aperto un centro di fotografia. Dentro c’era una scritta luminosa: “Idda”, che vuol dire “lei” in siciliano e generalmente ha una connotazione negativa, si usa per additare una persona, la si apostrofa. Ma lei andava incontro alle sfide a testa alta, irridente, rompeva i pregiudizi monolitici che solo questa terra sa avere. Lo faceva semplicemente, col sorriso e il dito medio alzato e andava avanti leggera.
Precorreva i tempi. Tornò ad abitare – e fu tra i primissimi – in centro storico quando era ancora invivibile, in via Giardinaccio. Io adesso abito di fronte quella che fu la sua casa, che ha venduto alcuni anni fa; ne stanno facendo un b&b, l’ennesimo in centro storico. E anche se “Idda” non c’è più, come ha scritto la collega e amica Miriam Di Peri, “l’unica promessa che possiamo farle è di continuare a guardare questa città con occhi che non si abituano e non si rassegnano“.
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