Non solo Gaza e Ucraina: ecco quante e quali sono le guerre nel mondo
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Le guerre nel mondo in corso in questo momento (dicembre 2024) sono ben 56 e l’invasione israeliana di Gaza e quella russa dell’Ucraina sono solo i più noti di un lungo elenco di conflitti. Dall’Afghanistan, alla Libia, al Myanmar, alla Nigeria, sono molte le popolazioni del mondo per cui il conflitto è la tragica normalità. In questo articolo faremo un excursus sulle guerre nel mondo, analizzando l’andamento, le cause e le classificazioni dei conflitti. Per capire se è possibile un mondo senza guerre.
Qui puoi scoprire:
Quante e quali sono le guerre nel mondo
Come vengono classificati i conflitti
Come mai facciamo la guerra
QUANTE E QUALI SONO LE GUERRE NEL MONDO?
Secondo dati aggiornati al 2024, il numero dei conflitti è salito a 56, il più alto mai registrato dalla Seconda guerra mondiale, come riportato da recenti studi del Global Peace Index 2024, uno degli indicatori più autorevoli.
Alcune di queste guerre vanno avanti da decenni e trovano le loro cause in lotte per il possesso di risorse strategiche, come molti dei conflitti che vessano il continente africano, altre nei giochi geopolitici delle potenze globali, come quelle in Afghanistan e Libia, altre ancora nei commerci di sostanze illegali, come la guerra dei Narcos in Messico.
Secondo una classificazione piuttosto utilizzata (anche se poco indicativa) che suddivide le guerre in base al numero di persone che perdono la vita ogni anno a causa di essi, esistono tre categorie di conflitti: le guerre maggiori, le guerre, i conflitti minori.
Conflitti principali
I conflitti principali o guerre maggiori, sono quelle guerre nel mondo in cui perdono la vita oltre diecimila persone ogni anno. Riporta Wikipedia che esistono al momento 6 guerre di questo tipo in corso nel mondo:
- Guerra russo-ucraina
- Conflitto arabo-israeliano
- Guerra civile in Myanmar
- Conflitto nel Maghreb e nel Sahel
- Guerra civile in Sudan
- Guerra della droga messicana
Qua sotto trovate la mappa interattiva dei conflitti nel mondo, aggiornata al dicembre 2024:
I conflitti russo-ucraino e quello arabo-israeliano (estensione della guerra scoppiata a Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre) sono certamente i due conflitti che godono di maggiore copertura mediatica. Ma non sono gli unici.
Molto grave e pochissimo considerato è il conflitto in Sudan, una guerra civile fra l’esercito governativo e un gruppo paramilitare guidato da un generale ostile al governo. Questo scontro, iniziato il 15 aprile 2023, ha radici profonde nelle dinamiche di potere del paese. Entrambi i leader militari che guidano i due schieramenti erano precedentemente alleati, hanno deposto insieme l’ex dittatore Omar al-Bashir nel 2019, ma delle divergenze sulla gestione del potere hanno portato a una violenta rivalità, sfociata ina guerra fratricida.
Le conseguenze umanitarie sono drammatiche: oltre tre milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case, con circa 2,4 milioni di sfollati interni e più di 700.000 rifugiati nei paesi confinanti, come Egitto, Sud Sudan, Ciad ed Etiopia. Inoltre, sono stati segnalati numerosi episodi di violenza sessuale, in particolare ai danni di donne e ragazze.
Restando nel continente africano, il conflitto nel Maghreb e nel Sahel rappresenta una delle crisi più complesse e persistenti dell’Africa. Questa vasta regione, che include il Nord Africa e la fascia saheliana, è caratterizzata da un intreccio di terrorismo, instabilità politica, crisi climatica e povertà estrema. Gruppi jihadisti come Al Qaeda e lo Stato Islamico hanno sfruttato la debolezza dei governi locali per insediarsi in aree desertiche difficilmente controllabili, portando a un’escalation di attacchi contro civili e militari. La criminalità organizzata, con traffici di armi, droga e esseri umani, si intreccia con le tensioni etniche e comunitarie aggravate dalla scarsità di risorse naturali dovuta al cambiamento climatico.
Paesi come Mali, Burkina Faso e Niger sono tra i più colpiti, con milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case a causa della violenza. La Libia, dal 2011, è diventata un crocevia per il traffico di armi e milizie che destabilizzano ulteriormente il Sahel, mentre in Ciad e Sudan si registrano conflitti interni che si sommano alla crisi regionale. La fragilità istituzionale, accentuata dai recenti colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ha creato un vuoto di potere che i gruppi armati continuano a sfruttare, aggravando la crisi umanitaria con carestie, sfollamenti di massa e difficoltà nell’accesso agli aiuti.
Nonostante gli interventi internazionali, come le missioni di pace delle Nazioni Unite e l’operazione francese Barkhane, la situazione rimane critica e senza soluzioni a lungo termine. La combinazione di terrorismo, povertà e cambiamenti climatici ha reso il Sahel l’epicentro di una crisi globale, con ripercussioni non solo locali ma anche per la sicurezza internazionale. La comunità internazionale, tuttavia, fatica a rispondere in modo coordinato ed efficace a una situazione che continua a deteriorarsi.
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Name: Il Green Deal va a fare la guerra
Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Infine c’è il conflitto in Myanmar. Tutto ha avuto inizio, perlomeno con riferimento alla storia recente, con il colpo di stato militare del 1 febbraio 2021, in cui Min Aung Hlaing, il comandante in capo delle forze armate del paese, ha ribaltato il governo democratico birmano e preso il potere. Secondo Avvenire quasi 20.000 dei 26.000 arrestati per motivazioni politiche in Myanmar sono ancora detenuti e spesso sottoposti a tortura e abusi senza processo. Tra di loro c’è gran parte della leadership democratica, inclusa Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace. I combattimenti hanno causato gravi sofferenze: 1.576 persone sono morte in custodia del regime negli ultimi tre anni e oltre 6.000 sono state uccise dal golpe, con alcune fonti che parlano di 45.000 vittime, tra cui 13.000 bambini. L’offensiva delle milizie etniche da ottobre ha causato almeno 300.000 nuovi profughi, portando il totale a oltre due milioni.
Da queste proteste è scaturita una vera e propria guerriglia armata, portata avanti da una coalizione chiamata Forza di difesa del popolo che sarebbe la frangia armata del Governo di unità nazionale, ovvero una sorta di governo non riconosciuto, in esilio, che è ciò che rimane del vecchio sistema democratico.
Infine, un conflitto che spesso non viene considerato tale, ma che rispetta tutti i canoni delle guerre, è la cosiddetta guerra della droga in Messico, iniziata nel 2006 con l’offensiva militare del governo contro i cartelli del narcotraffico. I principali gruppi, come il Cartello di Sinaloa e il Cartello Jalisco Nueva Generación si contendono il controllo delle rotte della droga verso gli Stati Uniti, causando una spirale di violenza che ha provocato oltre 350.000 morti e migliaia di dispersi.
La corruzione nelle istituzioni e la militarizzazione della sicurezza hanno complicato ulteriormente la situazione, lasciando molte comunità in balia di massacri, estorsioni e traffico di esseri umani. Nonostante gli sforzi governativi, il conflitto persiste, alimentato dalla domanda globale di stupefacenti e dalla fragilità sociale ed economica delle aree più colpite.
Le altre guerre
Oltre a questi sei conflitti principali, ci sono tante altre guerre nel mondo altrettanto drammatiche, più locali, sparpagliate, con meno morti, o magari di cui si conoscono meno i dati. Un dato interessante da osservare è che un numero sempre minore di conflitti viene risolto, sia militarmente che attraverso accordi di pace. La percentuale di conflitti terminati con una vittoria decisiva è scesa dal 49% negli anni ’70 al 9% negli anni 2010, mentre i conflitti conclusi tramite accordi di pace sono diminuiti dal 23% al 4% nello stesso periodo.
Degli altri 15 conflitti significativi sparsi per il mondo, ben 7 sono in Africa (alcuni dei quali coinvolgono più stati, come quello del Maghreb che ne coinvolge dieci), 5 sono in Asia (Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Pakistan), due sono in Sud America (La guerra per il controllo delle favelas in Brasile e quella delle FARC in Colombia), uno in Nord America (la guerra delle gang ad Haiti). E degli ulteriori 19 conflitti considerati minori, 11 sono in Asia e 8 in Africa.
L’Africa è – o meglio, le Afriche sono – il continente più martoriato, in cui a volte è anche difficile definire i confini dei vari conflitti e isolarli gli uni dagli altri. Il 2021, poi, riporta Nigrizia, è stato un anno particolarmente tumultuoso: pochi i conflitti che si sono conclusi, molti si sono intensificati, altri rischiano di scoppiare. Ci sono almeno una ventina di principali “aree di crisi” nelle Afriche. Sempre secondo Acled sono 12 i paesi che dal 1° gennaio 2021 all’8 aprile marzo 2022 hanno superato la soglia dei mille morti per le violenze armate: Nigeria (10.584), Etiopia (8.786), Rd Congo (5.725), Somalia (3.523), Burkina Faso (2.943), Mali (2.344), Sud Sudan (2.160), Repubblica Centrafricana (1.801), Sudan (1.342), Niger (1.324), Mozambico (1.276), Camerun (1.141).
Complessivamente, nel continente ci sono state oltre 46 mila le vittime di conflitti di varia natura e decine di milioni i profughi. Inoltre un rapporto dell’Istituto per l’economia e la pace afferma che il Medioriente e il Nordafrica hanno rappresentato quasi il 40% delle morti legate al terrorismo in tutto il mondo tra il 2007 e il 2023. E il Sahel sta diventando il nuovo epicentro del terrorismo.
COME VENGONO CLASSIFICATE LE GUERRE NEL MONDO
Abbiamo detto che usare il parametro dei morti per classificare i conflitti è molto riduttivo perché non tiene conto delle dinamiche alla base del conflitto e non ci aiuta a capirne l’evoluzione. Ad esempio alcuni conflitti possono restare “a bassa intensità” per anni e poi esplodere in maniera violente, come accaduto proprio in Ucraina.
Secondo Wikipedia, esistono vari modi per classificare le guerre nel mondo. Innanzitutto esiste un criterio legato all’estensione, per cui le guerre possono essere classificate in:
- Conflitto mondiale, esteso a più teatri di guerra in contemporanea, anche in continenti diversi.
- Conflitto regionale, che si svolge essenzialmente in un solo teatro operativo e coinvolge almeno una media potenza regionale, più altre potenze minori della stessa regione.
- Conflitto locale: conflitto fra un limitatissimo numero di potenze, spesso solo due, e che coinvolge un limitato territorio.
Un altro criterio è legato al tipo dei soggetti che la combattono. In questa ottica si parla di:
- Conflitto simmetrico, che avviene tendenzialmente fra due stati, con eserciti regolari che si scontrano.
- Conflitto asimmetrico, che avviene invece in genere fra uno stato, dotato di un esercito, e gruppi meno organizzati, o milizie locali.
Un’altra classificazione è quella fatta sulla base dei mezzi impiegati. In questo senso si distingue in:
- Guerra non convenzionale, che avviene fra due o più potenze che dispongono di armi di distruzione di massa e sono disposte a impiegarle fin dall’inizio del conflitto. È un tipo di conflitto fortunatamente ipotetico, visto che non ne esistono esempi nella storia.
- Conflitto convenzionale, nel quale le parti non dispongono di armi di distruzione di massa, o rinunciano a priori al loro impiego.
COME MAI FACCIAMO LE GUERRE NEL MONDO?
I motivi alla base dei conflitti possono essere i più svariati, ma sono perlopiù riconducibili ad alcuni fattori chiave:
- possesso delle risorse e dell’energia
- economia fiorente
- pressione demografica
- aspetti culturali
- cambiamenti nel contesto e crisi climatica
Possesso di risorse ed energia
Il dominio da parte di un determinato gruppo o Paese sulle risorse e le fonti di energia è forse il principale motivo che ha spinto gli esseri umani a fare le guerre nel mondo fin dalla preistoria. Secondo alcuni studiosi, la necessità di dover competere con altre specie – spesso meglio attrezzate di homo sapiens dal punto di vista delle armi naturali – per accaparrarsi il cibo e sopravvivere, condizione tipica della savana africana dove la nostra specie si è evoluta, ha fatto sì che sviluppassimo una propensione rapace e predatoria verso le risorse del pianeta e una naturale tendenza all’accaparramento.
Sebbene oggigiorno lo sviluppo tecnologico abbia emancipato buona parte della popolazione mondiale dalla pura lotta della sopravvivenza, queste vestige primordiali sono sopravvissute intatte come pennacchi evolutivi e continuano a caratterizzare i nostri atteggiamenti. Ancora oggi continuiamo a lottare per le risorse, che –- quelle sì – sono differenti: non sono più frutta zuccherina o carcasse di animali da cui recuperare pellicce ma petrolio, gas, acqua, terre fertili.
E così come una scarsità di risorse interne può portare un paese a fare la guerra al paese vicino, un aumento del costo delle risorse di base può portare una popolazione a insorgere contro il proprio governo o a fare una rivoluzione. È noto come la Primavera araba veda fra le sue principali cause l’aumento del prezzo del grano e dei generi alimentari di base. Così come molte altre rivolte recenti sono legate, ahinoi, all’aumento del costo dei carburanti.
Economia fiorente
Sembrerebbe una contraddizione rispetto a quanto detto prima, ma non è così. Riporta l’enciclopedia Treccani che secondo molti studi un’economia fiorente è la condizione per mantenere i conflitti oltre un certo periodo. Per tali motivi, molte guerre nel mondo fra gruppi tribali sono contenuti per intensità e per durata e molte comunità di interesse etnologico (per lo più numericamente esigue e gravitanti su vasti territori scarsamente popolati) si sono rivelate poco bellicose, al punto che alcune ignoravano persino il concetto di guerra.
Tradotto in altre parole, la guerra è un’attività molto costosa. Serve molto surplus per poter fare una guerra, perché significa impiegare le migliori risorse (macchinari, industrie, persone) per combattere invece che per produrre cibo. È stato il petrolio a basso costo che ha permesso al genere umano di fare delle guerre mondiali, concetto impensabile fino a pochi decenni prima.
Pressione demografica
Anche l’aumento della popolazione è un fattore spesso determinante nelle guerre. Più persone significano più risorse necessarie, che non sempre riescono ad essere reperite all’interno del proprio contesto. Sempre restando sull’esempio della Primavera araba, è stato notato che “tra il 1950 e il 1980 in tutta l’area del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) è calata la mortalità infantile ma è rimasta alto il tasso di natalità, ciò ha condotto ad alti tassi di crescita delle popolazioni che si traduce adesso in una generazione di giovani istruiti che non possono essere assorbiti dal mercato del lavoro. I tassi di disoccupazione giovanile dell’area MENA sono tra i più alti al mondo”.
Un mondo troppo densamente popolato da esseri umani è un’ottima base di partenza per veder scoppiare guerre frequenti.
Cambiamenti nel contesto e cambiamento climatico
A volte sono cambiamenti nel contesto circostante a determinare l’esplosione di un conflitto. Una stagione particolarmente arida, un disastro naturale che costringe una popolazione a emigrare in massa nei territori limitrofi, l’esaurimento di una o più risorse.
Oggi abbiamo un fenomeno che su scala globale è concausa di tutto questo genere di eventi: il cambiamento climatico e più in generale la crisi ecologica, modificando profondamente gli equilibri naturali all’interno dei quali la nostra specie si è evoluta, causeranno fenomeni di massa come migrazioni e nuovi conflitti per le risorse e il diritto ad abitare i territori rimasti fertili.
Fattori culturali
La guerra ha molto a che fare con il tipo di cultura che caratterizza determinate società. Come illustra Jared Diamond nel saggio best seller Acciaio, guerre e malattie la storia di come la civiltà occidentale si è espansa attraverso le guerre nel mondo non ha a che fare con una superiorità genetica e culturale, ma soprattutto con una sorta di aggressività intrinseca nella nostra cultura (assieme, ovviamente, a tanti altri fattori).
Nella storia del genere umano sono esistite molte culture profondamente pacifiche, che nemmeno avevano un termine per il concetto di guerra. Il “problema” è che tali culture non costruiscono armi, non si preoccupino di difendersi e di conseguenza sono facilmente conquistabili e assimilabili da società più aggressive e bellicose. Uno dei principali problemi del genere umano, in una prospettiva storica, è che le culture guerrafondaie e aggressive hanno sempre assoggettato quelle pacifiche.
Condannati alla guerra?
Quindi siamo condannati a fare le guerre nel mondo? Il mix di pressioni demografiche, culturali, contestuali ci spingeranno ad autodistruggersi per il dominio delle risorse? Non è detto.
Innanzitutto una società globale impone – o perlomeno dovrebbe farlo – logiche diverse rispetto alla “legge del più forte”. Oggi sempre più potenze possiedono armi in grado di cancellare buona parte del genere umano dal pianeta perciò, razionalmente, l’interesse di tutti dovrebbe essere la pace.
Come recita il Sedicesimo Obiettivo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, è necessario “Promuovere società pacifiche e solidali per lo sviluppo sostenibile, garantire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili e solidali a tutti i livelli”.
Sebbene gli avvenimenti recenti sembrino mostrare una nuova tendenza alla guerra da parte delle cosiddette superpotenze, esiste ancora la possibilità di creare un finale diverso. Nessuna guerra avviene per caso, ma al tempo stesso nessuna guerra è inevitabile. Certo, è più facile a dirsi che a farsi: una pace duratura è impossibile senza una cultura della pace.
E allora forse è il caso di prendere spunto dalle società pacifiche che gli esseri umani hanno costruito nella storia. C’è un interessante studio redatto dall’antropologo Robert B. Textor diversi anni fa, chiamato Caratteristiche delle società primitive riguardo alla guerra, in cui si confrontano le caratteristiche delle società tribali pacifiche con quelle guerrafondaie. Le nove società pacifiche analizzate avevano le seguenti caratteristiche: erano sostanzialmente nomadi, niente agricoltura né allevamenti, niente metallurgia, niente città, dimensioni comunitarie sotto i 50 membri, niente classi.
Inoltre, rispetto alle corrispettive società belligeranti, avevano più attività culturali, niente schiavitù, niente pene corporali, meno tabù sul sesso, meno bisogno di realizzazione, nessuna attenzione alla gloria militare o alla bellicosità, niente giochi di fortuna ma solo d’abilità, bassi livelli di narcisismo.
Ulteriori analisi, come quella condotta da Johan Galtung in “Belligerence among the Primitives” (Bellicosità fra i primitivi), hanno mostrato che le società pacifiche sono più scarse nello sviluppo economico e più forti in cultura di pace. È possibile costruire un mondo pacifico restando all’interno della cornice dello sviluppo economico? E in caso non lo fosse, cosa sceglieremmo? Domande a cui dobbiamo dare una risposta urgente e collettiva.
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