29 Apr 2022

Condannare il caporalato per tutelare i diritti dei lavoratori nei campi

Scritto da: Lorena Di Maria

Era stata battezzata "Momo", proprio come il soprannome del caporale che faceva da tramite tra i lavoratori sfruttati nel cuneese: parliamo dell’inchiesta che in queste settimane ha portato alla prima condanna per caporalato nel nord-ovest. Una sentenza di rilevanza storica che mette in luce ancora una volta l’illegalità, i diritti mancanti e le condizioni di sfruttamento dei braccianti.

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Cuneo - Il fenomeno del caporalato nelle campagne è una delle questioni a cui abbiamo deciso di dare un particolare spazio oggi, alla vigilia del Primo Maggio. Ricordare questa festa significa ripensare politiche che rimettano al centro la dignità del lavoro e una società dei diritti che sia più equa e più giusta. Ma nelle campagne, dal nord al sud Italia, spesso la realtà è ben lontana da questi concetti. Un esempio è il caso di Saluzzo, che fa discutere da circa quattro anni per le condizioni di sfruttamento e manodopera a basso costo ai danni dei lavoratori nei campi.

Come riportato da Collettiva, la piattaforma di Cgil, «il caso era esploso in seguito a un’inchiesta della Digos e alle segnalazioni del sindacato: proprio nel 2018, infatti – secondo i dati della Cgil – in quel territorio, su 240 aziende ispezionate, 123 non erano a norma, ovvero il 51%, e su 875 lavoratori ben 281 erano impiegati irregolarmente, la metà dei quali totalmente in nero».

Il risultato dell’inchiesta è stato un processo che non rappresenta altro che un caso emblematico, poiché ha creato una cesura rispetto alla convinzione che i casi di caporalato siano ascrivibili principalmente ai territori del sud, mentre esperienze crescenti di illegalità dimostrano di essere sempre più frequenti anche nei distretti agricoli del nord.  

Caporalato
Foto di Nilotpal Kalita tratta da Unsplash
UNA SENTENZA STORICA CONTRO LO SFRUTTAMENTO LAVORATIVO

Sono significative le recenti condanne per sfruttamento lavorativo e caporalato in agricoltura da parte della Procura di Cuneo e dalle Forze dell’Ordine sul territorio del cuneese: parliamo della condanna di quattro imputati delle aziende agricole di Lagnasco e Barge, oltre che del caporale che faceva da intermediario per reclutare la loro manodopera. Da quanto risulta dal processo e dal racconto dei lavoratori di origini africane che hanno portato la loro testimonianza in tribunale, le condizioni a cui erano sottoposti quotidianamente erano caratterizzate da lavoro in nero e basse paghe.

Come riportato dal Coordimento provinciale dell’Associazione Libera contro le mafie, che ha espresso il suo apprezzamento per il risultato della sentenza, «questo verdetto mostra come il caporale non si “autocrea”: la sua figura e la sua funzione non potrebbero esistere se non vi fossero le condizioni che alimentano la sua “utilità” e il vantaggio che offre a chi vuole fare dello sfruttamento un modo per arricchirsi alle spalle dei lavoratori e di un intero sistema produttivo».

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Foto di Sebastien Bicio tratta da Unsplash
IL PROBLEMA DEL “CAPORALATO GRIGIO”

Si è parlato in questo caso di “lavoro grigio”, quale generica situazione in cui i lavoratori si trovano obbligati a lavorare senza garanzie e tutele e a ricorrere a situazioni “obbligate”: essere soggetti ad accettare tipologie contrattuali atipiche, a firmare fogli di dimissioni in bianco, a essere inquadrati in mansioni non corrispondenti alle prestazioni effettivamente svolte, in un contesto di sopraffazione causata dall’ansia dettata dalla possibilità di perdere il lavoro o l’eventuale permesso di soggiorno.

È fondamentale parlare anche oggi di caporalato, di sfruttamento, di lavoro grigio e nero

Libera Contro le Mafie aggiunge infatti che in questa precisa situazione «preoccupa ancora di più la sottigliezza di un “caporalato grigio” tutt’altro che facile da dimostrare: il raggio di azione pare quello di una accettazione di comportamenti in realtà illegali, sotto l’egida del “così fan tutti”, se non addirittura nemmeno percepiti come illegali o perfino posti in essere quel tanto che basta da risultare “illegali ma non troppo”».

«Come volontari della rete provinciale di Libera riteniamo importante anche il risarcimento ai lavoratori che, nonostante tutte le difficoltà, hanno deciso di presentarsi al processo come parte offesa e quello per le parti civili che, insieme a tanti altri attori del territorio, da anni si adoperano per far emergere questo odioso fenomeno».

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Foto di Andrea Cairone tratta da Unsplash
GARANTIRE IL DIRITTO SUL LAVORO

Secondo alcune recenti stime di Humus Job, realtà che in questi anni ha costruito un modello per contrastare il lavoro irregolare in agricoltura e le derive di sfruttamento e caporalato, «all’interno del settore agricolo italiano vi sarebbero almeno 220.000 rapporti di lavoro irregolari, che si traducono in un tasso di irregolarità pari al 23,8%».

«Grazie all’intensa attività della Procura di Cuneo, in base a indagini sistematiche, intercettazioni e testimonianze dirette di alcuni lavoratori coraggiosi, sono state raccolte e documentate prove che hanno portato a tracciare comportamenti illeciti messi in atto in modo sistematico, suffragati dalla condizione di bisogno (di un reddito, di rinnovare il permesso di soggiorno, di sfamare la famiglia lontana) di lavoratori che vivevano in condizioni di fragilità e marginalità economica e sociale».

Questa sentenza, seppur di primo grado, rappresenta per Libera «un traguardo importante per i lavoratori stagionali del mondo agricolo, per le imprese che scelgono la legalità e per tutte e tutti noi in quanto cittadini e consumatori chiamati a essere corresponsabili e a non ignorare come un prodotto arriva sugli scaffali e sulle nostre tavole».

Per questo motivo è fondamentale parlare anche oggi di caporalato, di gravi forme di sfruttamento, di lavoro grigio e nero, di condizioni degradanti, perché significa ricordarci che a che punto siamo e quanta strada c’è ancora da fare per garantire uguali diritti nel mondo del lavoro.

«L’attenzione alla vicenda umana e lavorativa dei braccianti agricoli stranieri e al destino produttivo del tessuto agricolo della nostra provincia ci impongono di non far venire meno l’attenzione su questo fenomeno, anche attraverso azioni di informazione, sensibilizzazione e prevenzione come quelle che insieme, i media, gli attori sociali, le istituzioni e le organizzazioni datoriali, sindacali, della distribuzione possono e dovrebbero mettere in atto».

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